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Days | La poetica di Tsai Ming-liang in un film che rielabora il concetto del tempo

Minimalista, essenziale, eppure vivo e carnoso. Due ore in cui perdersi e, forse, ritrovarsi

Days
Days

ROMA – Staccate internet, mettete off-line l’iPhone, non rispondete al citofono né al telefono. Prendetevi due ore di tempo per entrare nel mondo cinematografico di Tsai Ming-liang, tornato alla regia con Days (日子, Rìzi) dopo la sferzata di Stray Dogs, del 2013. Come per gli altri film dell’autore taiwanese, anche questo merita una profonda attenzione, nonché un certo e momentaneo distacco con il mondo circostante. Days (portato in Italia da Double Line e Lo Scrittoio), nei suoi 127 minuti, è un film di dettagli, di silenzi, di vita compassata e, non per ultimo, di assoluta grazia visiva e sonora. Non solo, via via che il film avanza il regista riesce addirittura a creare una sorta di sensazione extra-sensoriale, facendo di Days un film da vedere, ascoltare e, magnificamente, da toccare. Presentato in Concorso alla Berlinale 70 e poi al NYFF 58, Tsai Ming-liang allarga il prospetto della sua poetica ma, contemporaneamente, ne fa una sorta di sintesi che rilegge il concetto di tempo e di tempo narrativo, scevro dai dialoghi e dalla musica.

Non (Anong Houngheuangsy) e Kang (Lee Kang-sheng)

Solo cinema, solo immagini e solo essenza nelle lunghe riprese minimaliste che fotografano la vita quotidiana di due uomini. Da una parte Kang (Lee Kang-sheng), dall’altra il più giovane Non (Anong Houngheuangsy). Kang vive da solo, e si rilassa nella sua grande casa, con una bella vista sul laghetto del suo cortile. Non invece vive in un appartamento spartano, quasi vuoto. Le sue giornata iniziano pregando, per poi sbrigare le faccende domestiche. Non una parola, non un tono fuori posto. Il regista si prende il tempo e lo spunto necessario per farci fruitori di due vite diverse eppure contigue. È il loro incontro che da alla pellicola la fiamma per portalo ad un piano ancora più elevato. Kang infatti si reca in città, in cerca di cure per il dolore alla testa e al collo. Dopo una seduta di agopuntura, fissa un massaggio nel salone dove lavora Non. Tra i due nasce una strana intesa, tanto surreale da sembrare uno di quei sogni in cui i volti che conosciamo mutano e diventano altro. Rimasugli di memorie e ricordi sotterrati.

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L’occhio di Tsai Ming-liang

In mezzo, tra Kang e Non la vita che passa e scorre veloce nel bel mezzo di una pellicola che invece va lenta. Ed è qui che torna la sensazione che Days di Tsai Ming-liang sia l’estrapolazione onirica di un sogno avvenuto nell’attimo in cui il sonno spegne la veglia. Due realtà parallele e quotidiane, gli elementi primordiali che si mescolano (tra le peculiarità della cinematografia del regista) alla materia, alla consistenza, allo sporco, alla carne. Possiamo quasi sentire l’odore della zuppa che Non e Kang consumano silenziosamente, si può comprendere quanto siano lisce le mattonelle del bagno in cui Non lava tutti i giorni le verdure. E, con un colpo di genio che rende Days esempio di cinema alto, l’autore con inquadrature lunghe e fisse incastra i punti di svolta effimeri e sfuggenti, per renderlo un quadro vivo che esplora e avvicina il male terribile della solitudine.

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Una scena del film

Il cinema di Tsai Ming-liang, fin da Vive L’Amour (Leone d’Oro 1994), The Hole – Il Buco e Goodbye, Dragon Inn, gioca con la classicità e con la sperimentazione, portando al limite il senso linguistico e la messa in scena. Come a sfidare lo spettatore, ipnotizzandolo con una storia che non c’è, con un prodotto davvero artigianale. Non poteva essere altrimenti, e quindi ecco che tra i personaggi e il fruitore si instaura una sorta di rispetto; l’accettazione che ne deriva libera magicamente la testa e l’anima, anche se siamo costretti nei decrepiti spazi chiusi oppure nei vicoli stretti e sudici di Bangkok, illuminati dai neon che cancellano il buio della notte. In questo senso, Tsai Ming-liang estremizza il realismo e invade il territorio del documentario, piazzandosi vicino ai film-sequenza di Kiarostami o quelli più bizzarri di Andy Warhol. Ma in Days c’è la finzione, c’è un’evoluzione e c’è l’astrazione cinematografica e temporale. Cardini che il regista non perde mai di vista, e anzi li rinchiude in un carillon che suona il tema di Luci della Ribalta di Charlie Chaplin. Suono che, beffardamente, si perde nel rumore del traffico.

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Qui il trailer di Days:

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