ROMA – Il saggio filmico Il cinema secondo Hitchcock di François Truffaut è da considerarsi tra i libri di cinema più rilevanti di sempre, ma questo si sa. All’interno si racconta di una serie di conversazioni avvenute tra Truffaut e Alfred Hitchcock lungo tutta una settimana, nell’agosto 1962. Dalle pagine del saggio, tra aneddoti, curiosità e riflessioni, emerge un quadro interessante di uno dei film diretti dal regista, Caccia al ladro (lo trovate su Prime Video, Apple TV+ e Tim Vision), che per Hitchcock era null’altro che una storia leggera, o per dirla con le sue parole: «Non era una storia seria». Gli stessi critici del tempo, dopo l’anteprima estiva che si tenne in Pennsylvania il 2 agosto 1955, definirono il film come un giallo sui generis. Un’opera da cui trasudano relax e buonumore: una gita gastronomica condita con giusto un pizzico di suspense.
Per Hitchcock l’unico elemento degno di nota della sua frizzante pellicola era da ricondursi a una sua personale idiosincrasia di tipo fotografico, rivelatasi poi vincente: «Tutto quello che posso dire di interessante è che ho provato a sbarazzarmi del Technicolor blu per il cielo durante le scene di notte. Detesto il cielo blu Savoia. Allora ho utilizzato un filtro verde, ma non andava assolutamente bene per ottenere un blu scuro, blu ardesia, blu grigio, come in una notte vera». Agli Oscar del 1956 infatti Caccia al ladro si presentò con tre nomination (Miglior scenografia, Migliori costumi, Miglior fotografia) risultando vincente proprio in quest’ultima categoria. Tratto dall’omonimo romanzo del 1952 di David Dodge (Gialli Mondadori) la Paramount ne acquistò immediatamente i diritti di utilizzazione economica. Poco dopo affidarono a Hitchcock la resa registica.
Per lo script toccò ancora una volta a John Michael Hayes, che alla seconda collaborazione con Hitch dopo La finestra sul cortile, infarcì la narrazione di toni vivaci ed audaci doppi sensi. A proposito del climax e del momento della rivelazione-chiave che dirada la nube di mistero sapientemente costruita attorno al fantomatico Gatto – ratio e nodo gordiano del racconto – Hitch definì così la valenza scenica e morfologica del villain di Caccia al ladro: «Era Brigitte Auber. Mi hanno fatto vedere Sotto il cielo di Parigi di Julien Duvivier. Dove interpretava una ragazza di provincia che viene in città. L’ho scelta perché doveva avere un fisico piuttosto robusto per scalare i muri delle ville, non sapevo assolutamente che Brigitte Auber, tra un film e l’altro, faceva l’acrobata, così si è trattato di una coincidenza fortunata».
Eppure, nonostante per l’autore non fosse nulla più che un divertissement vacanziero, tanto che alcune recensioni dell’epoca lo definirono, letteralmente: «Lo champagne di Hitchcock», Caccia al ladro rappresenta un elemento prezioso nell’opus hitchcockiano. Tra le righe del racconto è possibile leggere della summa tematica e registica a testimonianza delle mille sfumature del suo cinema: il tema del passato che torna, inesorabilmente, a bussare alla porta, il sospetto legato a doppio filo al tema dell’innocenza/colpevolezza, lo scambio e l’identificazione mimetica, l’ambiguo fascino del crimine, le mille forme del sesso come motore narrativo. Tutti topos hitchcockiani di cui abbiamo rimandi tra Il sospetto, L’altro uomo, Il ladro, La donna che visse due volte e Marnie, qui avvolti in una narrazione lineare dall’incedere cadenzato e dolce, con spruzzate di suspense e un sottile retrogusto da commedia.
Humour british fatto di doppi sensi arguti e scene volutamente provocatorie rese possibili da un Cary Grant autentico mattatore della commedia sofisticata hawksiana e interprete superbo, di cui Hitchcock seppe sfruttare al meglio le peculiarità attoriali cucendogli addosso un ruolo crepuscolare e giocoso, sensualmente brillante, che troverà completamento nel successivo Intrigo internazionale. Un contrasto tra le tante anime della narrazione di Caccia al ladro che Hitch seppe acuire ora in termini registico-fotografici con l’incedere del filtro verde ogni qual volta ci fosse il bisogno di sottolineare la criticità del momento/lato oscuro monegasco, ora narrativi, giocando d’inerzia tra l’ambientazione da sogno e l’efferatezza degli eventi. Emblematica, in tal senso, l’apertura di racconto con cui Hitchcock, attraverso un semplice stacco di montaggio, passa dalle cartoline della Costa Azzurra a una donna urlante: «I miei gioielli!», ovvero simbologia, velocità di intenti e basi drammaturgiche.
L’opera di Hitchcock passò principalmente alla storia per il suo essersi legata a doppio filo con la vita di Grace Kelly. Giunta alla terza collaborazione con Hitchcock dopo Il delitto perfetto e La finestra sul cortile, è anche la sua ultima. È sul set de Caccia al ladro che Ghiaccio bollente – come la soprannominò scherzosamente Hitch – conobbe il futuro marito: il Principe Ranieri III di Monaco. Per la Kelly fu il primo passo verso l’addio alle scene che si consumerà nel 1956 dopo Il cigno in un prodigioso lavoro di mimesi tra narrazione storicizzata e realtà e Alta società. Lungo il dispiego dell’intreccio la pellicola si tinge di rosso. La celebre sequenza dell’inseguimento lungo le arzigogolate colline monegasche è di suo uno dei momenti chiave del racconto, cambiando inerzia al rapporto tra Robie/Grant e Frances/Kelly, ma c’è di più.
Quelle stesse strade infatti ne segneranno il cammino di vita ventisette anni dopo, portandola alla morte in un incidente stradale. Vero si, ma in parte. Il punto incriminato non è proprio quel tratto, ma un paio di tornanti a qualche chilometro di distanza in avanti. In ogni caso un’interprete, Grace Kelly, straordinaria e strategica in Caccia al ladro come nei precedenti lavori targati Hitchcock a cui prese parte: «Il mio lavoro con Grace Kelly è consistito nell’affidarle – da Il delitto perfetto a Caccia al ladro – delle parti sempre più interessanti. Per Caccia al ladro, che era una commedia un po’ nostalgica, sentivo che non potevo fare un lieto fine senza riserve. Allora ho girato quella scena intorno all’albero. Grant sposerà la Kelly ma la suocera verrà a vivere con loro: così è quasi un finale tragico».
Ma soprattutto, per Hitchcock l’eleganza innata della Kelly rappresentava la perfetta concezione di sesso indiretto: «Quando affronto le questioni di sesso sullo schermo non dimentico che, anche qui, la suspense comanda tutto. Se è troppo evidente non c’è suspense. Guardi l’inizio di Caccia al ladro. Ho fotografato Grace Kelly impassibile, fredda. La faccio vedere il più delle volte di profilo, con un’aria classica: molto bella ma molto gelida. Ma quando gira nei corridoi dell’Hotel e Grant l’accompagna fino alla porta, cosa fa? Appoggia improvvisamente le labbra sulle sue». Un gioiellino insomma, forse un’opera minore in relazione alla grandezza della filmografia di Hitchcock, ma proprio perché è di Hitchcock che parliamo, ugualmente preziosa e dal retaggio senza tempo.
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- VIDEO | Qui per il trailer di Caccia al ladro:
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