in

HEROES | Brando Pacitto: «Perché Shia LaBeouf è molto meglio di quanto pensiate…»

I film, lo stile, il talento, l’attitudine: Brando Pacitto spiega perché LaBeouf è uno dei suoi miti

Shia LaBeouf
«La sua attitudine, il suo talento»: Brando Pacitto racconta Shia LaBeouf.

ROMA – La prima volta che vidi Shia LaBeouf avevo undici anni. Apparì improvvisamente in mezzo allo schermo in una scena di Disturbia, una sorta di remake de La finestra sul cortile di Hitchcock prodotto da Steven Spielberg. Non mi fissai molto su di lui. All’inizio non mi colpirono particolarmente la sua presenza e nemmeno la sua faccia. Rimasi più che altro affascinato dal film. Lo rividi però, per caso, qualche tempo dopo: i miei genitori fecero l’abbonamento a Sky e me lo ritrovai lì dentro, ancora Shia, in un episodio di Even Stevens, sit-com che andava in onda su Disney Channel e in cui lui interpretava l’ultimogenito di una famiglia. Fu quello probabilmente il preciso momento in cui cominciai ad avvertire la presenza dell’elemento Shia LaBeouf.

 Shia LaBeouf
L’inizio di tutto: Shia LaBeouf in Even Stevens. Siamo nel 2001.

La svolta avvenne qualche anno dopo, quando la visione di un film fece da spartiacque al mio piccolo mondo innocente: avevo poco meno di sedici anni e vidi Charlie Countryman deve morire, un titolo poco citato in cui lui era clamoroso nel ruolo di un tipo come tanti che si innamora di una ragazza rumena e finisce in un mare di guai. Da quell’istante Shia LaBeouf è diventato uno dei miei attori preferiti. Ho cominciato a seguirlo anche fuori dallo schermo, mi sono appassionato alla persona, oltre che all’attore, e ai suoi gesti clamorosi: dal red carpet di Berlino con il sacchetto in testa alle performance assurde in sala. Era la rotella che faceva saltare l’ingranaggio fittizio di Hollywood.

Un primo piano di Shia in Charlie Countryman deve morire. Era il 2013.

L’aspetto interessante è che Shia ha avuto un tipo di carriera che negli anni si è evoluta con il mio gusto. Dalla saga di Transformers a Indiana Jones 4, dal cinema d’autore europeo a film più piccoli: crescendo mi appassionavo e lo seguivo nelle sue scelte sempre più radicali, deviazioni assurde di un antidivo che sceglieva i film perché voleva farli, mai per convenienza o calcolo. Così non l’ho più perso di vista, l’ho guardato e ammirato in cose molto diverse come Nymphomaniac di Lars Von Trier o come American Honey di Andrea Arnold, un film che considero un capolavoro assoluto che va consigliato e riscoperto visto che in Italia non è mai nemmeno uscito in sala.

Con Sasha Lane in un cult assoluto: American Honey. 2016.

Con il passare del tempo, anche grazie alla mia esperienza, ho capito che il cinema è uno strumento molto particolare: ha il potere di avvicinarti ma anche di distaccarti drammaticamente dalla realtà. Può diventare un sistema in cui lentamente ti trasformi in una macchina più che in un artista, perdi il contatto con gli altri e finisci fuori strada. Shia LaBeouf lo ha capito. E si è fermato. Da questo punto di vista credo che Honey Boy sia un esperimento allucinante, un pezzo di cinema che diventa psicanalisi, una catarsi che è di un autolesionismo sconvolgente: girare un film in cui interpreti tuo padre, l’artefice del tuo dolore. Incredibile.

Lui e il padre: in Honey Boy, nel 2018.

A fianco del suo cinema, che non smetto mai di seguire – all’ultima Mostra di Venezia l’ho visto in Pieces of a Woman, in cui ha un ruolo potente a fianco di Vanessa Kirby – oggi continuo ad apprezzare anche le scelte che fa: un paio d’anni fa, a Los Angeles, ha fondato un laboratorio totalmente gratuito in periferia, allo Slauson di Compton, per dare la possibilità di fare teatro anche a persone che non possono permetterselo, che sono soffocate dalla criminalità o da una vita quotidiana feroce e non hanno vie di fuga. Il teatro come forma di aggregazione, l’arte come forma di resistenza sociale, la cultura che riesce a elevare l’individuo all’interno di una comunità. Non una cosa da poco.

Shia LaBeouf
Shia Style: felpa e cappellino da baseball.

Qualcuno sostiene che Shia LaBeouf abbia sabotato la sua carriera. No, non credo sia così, credo che invece dietro alle sue scelte ci sia stata una presa di coscienza molto profonda dettata dalla sua sensibilità. Ovviamente non lo conosco, ma da quello che vedo posso dedurre che, come attore e come essere umano, è una persona decisamente empatica e sensibile, caratteristiche che a un certo punto ti portano inevitabilmente a porti delle domande, a mettere in discussione quello che fai e perché lo fai. Sempre. Un’attitudine che ritengo molto sana soprattutto oggi, all’interno di un sistema che vorrebbe importi delle scelte fingendo che le abbia decise tu. E allora: lunga vita a Shia LaBeouf.

  • * BRANDO PACITTO – qui il suo profilo IG – è ora su Netflix con Baby 3 e sarà all’ISFCC di Cipro con il corto Il Branco diretto da Antonio Corsini.

Se volete continuare a esplorare il mondo di Shia LaBeouf:

  • AMERICAN HONEY | Perché dovete vederlo
  • HONEY BOY | Le mille maschere di Shia
  • IN VIAGGIO VERSO UN SOGNO | Un inedito imperdibile

Lascia un Commento

Che fine hanno fatto | Il viaggio di Alexis Bledel, da Una mamma per amica a Gilead

festa del cinema

Tra Steve McQueen, Soul e Thom Yorke: il programma della Festa del Cinema 2020