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American Honey | La strada, i sogni, Shia LaBeouf e la poesia dei beautiful losers

La provincia, l’illusione della speranza, la musica. E un film che colpisce cuore e stomaco…

Sasha Lane in una scena di American Honey.

ROMA – Il trucco sbavato, sputi di città, balere che gracchiano country, verande impregnate di sporco e degrado. New York e Los Angeles sono luci straniere in un angolo di Stati Uniti dove i sogni sono strafatti di anfetamina e abbandono. Un’instantanea reale e distruttiva, fotografata dalla regista e sceneggiatrice (britannica, paradossalmente,  no?) Andrea Arnold nell’abbagliante American Honey, incredibilmente inedito in Italia, mai passato al cinema e che ora trovate in streaming su Prime Video, CHILI e Apple TV +. Titolo beffardo, preso in prestito da un brano dei Lady Antebellum che canta di un amore dolce e romantico, ma qui di dolce e romantico c’è poco e l’unica cosa pura, in un mare di immondizia e brutalità, si chiama Star, interpretata da Sasha Lane (!), debuttante destinata a gloria futura (l’abbiamo rivista nell’ottimo Hearts Beat Loud, qui).

Beautiful losers: Shia LaBeouf e il suo manipolo di vagabondi.

Star ha diciotto anni, vive a Muskogee, Oklahoma, e in uno dei suoi giorni tutti uguali, con i due fratellini abbandonati da un padre mostruoso, decide di seguire Jake – Shia LaBeouf, che quando vuole sa essere un fuoriclasse, vero, purissimo – capo carovana di un pugno di ragazzi senza passato né futuro. Solo presente. Basta quello. American Honey è un faro che illumina il lato oscuro dell’American Dream e lo fa in modo schietto e feroce, tra esplosioni di vita e dolore, seguendo personaggi che fanno schifo, tenerezza, compassione. Lì in mezzo, persa, c’è Star, che non ha stelle ma solo luci al neon di motel ad indicarle una strada che vorremmo non percorresse, ma che è l’unica che conosce, l’unica che può farle credere – anche solo per un attimo – che i sogni nascono proprio da quella disperazione che stordisce.

Shia LaBeouf e Sasha Lane in una scena del film.

Esattamente come canta Rihanna in We Found Love, strillata a bordo di un furgone da quel pugno di anime dimenticate, esaltante colonna sonora di un’America bianca, maschia e provinciale, che mai avrebbe teso la mano verso l’audacia della speranza dell’era Obama, oggi tremendamente lontana, anche con Biden, dimenticato o quasi Trump con le sue ombre nere. American Honey però non è un film politico nel significato più classico del termine, ma un film concettuale. Una scena, chiave, sintetizza tutto. Vediamo Star impegnata a vendere riviste, sale su un tir e comincia a parlare con l’autista di illusioni, desideri, aspettative. Parlano e ascoltano Bruce Springsteen, che in radio sussurra, appunto, Dream, Baby Dream. Sogni, vita, futuro.

Ancora Sasha Lane in un momento del film.

Pare che tutto abbia un senso, no? Sì, sembra che in quel momento l’America si sia rivelata finalmente: un tir, la strada, il Boss, un cane. Che volere di più? Sta tutto lì. Ma quando Star scende, si accorge che quel tir trasporta bestiame. Destinato alla morte. Uno dei (molti) pugni allo stomaco del film, che la Arnold in quasi tre ore alterna a pillole di aria pura, inghiottite per non affogare, per continuare a respirare, per continuare a tenere gli occhi puntati al cielo, ignorando un destino che non promette nulla di buono. Dream, Baby Dream

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