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8½ | Marcello Mastroianni e i sessant’anni del capolavoro di Federico Fellini

Claudia Cardinale e Sandra Milo, La Bella Confusione e la realizzazione di un film senza tempo

8½
Marcello Mastroianni in 8½

ROMA – Per Martin Scorsese rappresenta ancora oggi uno dei più grandi film mai realizzati:«Perché? Perché va direttamente al cuore della creatività – la creatività nel cinema – circondato da infinite e fastidiose distrazioni e varietà di follia». Per Oliver Stone, invece, è stato qualcosa di universale: «Sì, un film universale. A quel tempo così strano per la sua fine, così misterioso e ambiguo». Ma di cosa stiamo parlando? Di di Federico Fellini, naturalmente. Il culmine di una carriera, l’apogeo artistico. Un film fuori schema, straboccante, ridondante, vivo, vibrante, che vira verso il sublime. Un flusso di coscienza in bilico tra sogno e realtà in cui il punto di vista del protagonista e della cinepresa si fondono in un enigmatico puzzle di pura decostruzione meta-narrativa fatto delle riflessioni e dei tormenti del processo creativo, della confusione del regista. O come la chiamava Fellini: La bella confusione.

8½ fu presentato in anteprima il 13 febbraio 1963
8½ fu presentato in anteprima il 13 febbraio 1963

Era questo il titolo originale di . Lo propose il co-sceneggiatore Ennio Flaiano ma Fellini sentiva che qualcosa non quadrava in quel titolo. Su pressione della Cineriz di Angelo Rizzoli optò per il titolo poi definitivo. Un titolo autoreferenziale, in riferimento al numero di film che aveva diretto fino a quel momento: sei lungometraggi (Lo sceicco bianco, I vitelloni, La strada, Il bidone, Le notti di Cabiria, La Dolce Vita), due cortometraggi (Agenzia matrimoniale, Le tentazioni del dottor Antonio) e quel mezzo ascrivibile a Luci del varietà co-diretto con Alberto Lattuada. Il suo esordio peraltro, datato 1950. Ma soprattutto cinema. Perché c’è tanto cinema in : come una cosa seria e leggera, allo stesso tempo. Ma da dove nasce l’idea per il film? Per scoprirlo bisogna tornare indietro fino all’ottobre 1960.

Marcello Mastroianni è Guido Anselmi in una scena di 8½
Marcello Mastroianni è Guido Anselmi

In quell’anno, in una lettera al collega Brunello Rondi, Fellini delineò per la prima volta le sue idee cinematografiche su un uomo che soffre di un blocco creativo: «Ebbene, un ragazzo (uno scrittore? Uno sceneggiatore? Un produttore cinematografico o teatrale?) deve interrompere per due settimane il ritmo abituale della sua vita a causa di una malattia non troppo grave. È un campanello d’allarme: qualcosa lo sta bloccando». Circa un anno dopo, all’indomani de Le tentazioni del dottor Antonio (episodio del film corale Boccaccio ’70) l’idea per comincia a sbocciare, a prendere forma, ma non è un’idea precisa, piuttosto un accumulo di vaghe intuizioni che vanno a mescolarsi tra loro. Le perplessità erano tante, specie in Flaiano che dalla sua si chiese: «Come si può filmare il pensiero di un uomo, la sua immagine, i suoi sogni?».

Il ballo di 8½
Il ballo che ispirò poi Quentin Tarantino per Pulp Fiction

Nella primavera del 1962 sembrò tutto pronto per iniziare a girare. Fellini fissò le date della lavorazione con Rizzoli, fece costruire i set, i provini per le comparse. Non c’era ancora uno script definitivo però. L’unica vera certezza era il nome del suo eroe protagonista, Guido Anselmi, ma non cosa facesse per vivere e quale fosse il suo arco di trasformazione. Non era nemmeno chiaro chi gli avrebbe prestato volto e corpo. All’indomani di quel 16 febbraio 1963 in cui arrivò nelle sale italiane ebbe a dire come: «Io avevo bisogno di un italiano, di un amico che accettasse l’umiltà di essere come un’ombra rispettosa, che non venisse fuori in modo eccessivo, così ho preso Mastroianni, lo conoscevo già, ed è stato bravissimo. C’è e non c’è. Perfetto». Ma all’epoca si vociferava che non fosse stato lui la prima scelta di Fellini.

Sandra Milo e Marcello Mastroianni

L’ideale sarebbe stato un artista-autore straniero. Un po’ sulla scia di Anthony Quinn/Zampanò ne La strada e Broderick Crawford/Augusto Rocca ne Il bidone, Fellini aveva immaginato Guido Anselmi con le fattezze filmiche di uno fra Laurence Olivier e Charlie Chaplin. Nessuno dei due si mostrò interessato, ripiegando (si fa per dire) su un Mastroianni strepitoso dall’ironia graffiante e dallo charme avvolgente, o per usare le parole di Fellini: «Allusivo, discreto, simpatico, antipatico, tenero, prepotente». Anche per Sandra Milo dovette lottare. Dopo il fiasco di Vanina Vanini di Roberto Rossellini, il marito di lei, il produttore cinematografico greco Moris Ergas, fece resistenza sul suo ritorno al cinema. Fellini riuscì a convincerlo ma la strada restava comunque in salita. La crisi personale del Maestro giunse al culmine nell’aprile dello stesso anno: non riusciva ad avere una storia che fosse una.

«Tu saresti capace di piantare tutto e ricominciare la vita da capo?». Una scena del film

Seduto nel suo ufficio di Cinecittà, Fellini iniziò a scrivere una lettera a Rizzoli confessando di «Aver perso il suo film». Proprio in quel momento il capo macchinista entrò in ufficio chiedendogli di unirsi a lui e al resto della troupe per celebrare l’inizio della lavorazione di . Fellini mise da parte la lettera e andò sul set. Brindando assieme alla troupe, si sentì sopraffatto dalla vergogna: «Ero in una situazione senza uscita. Ero un regista che voleva fare un film che non ricorda più. Ed ecco, in quel preciso momento, tutto è andato apposto: andavo dritto al cuore del film. Raccontavo tutto quello che mi era successo. Facevo un film che raccontasse la storia di un regista che non sa più che film voleva fare.» Iniziate le riprese il 9 maggio accadde qualcosa di (molto) curioso.

«…Perché non sa voler bene»

Giunto sul set Fellini prese un piccolo pezzo di carta marrone, lo attaccò alla base della cinepresa per poi scrivervi su una frase decisamente spiazzante: «Ricordati che questo è un film comico». E in effetti, ragionando ex-post, sarebbe stato infinitamente più facile – conoscendo lo sconforto della crisi creativa – rendere un film dai toni cupi, o più comunemente triste. Ma non lo sarebbe mai stato conoscendo Fellini perché per lui non era qualcosa per cui essere tristi il cinema. È stato invece un film liberatorio con cui tirare le somme: «È un film testamentario eppure non mi ha svuotato, al contrario, mi ha arricchito, fosse per me ricomincerei a farne un altro domattina. È la storia di un uomo come ce ne sono tanti: la storia di un uomo giunto al punto di ristagno, a un ingorgo totale che lo strozza».

«È un film testamentario eppure non mi ha svuotato, al contrario, mi ha arricchito»

Al centro del racconto di , come già detto, la crisi creativa dell’uomo-regista. Il film colpì particolarmente François Truffaut che, oltre a lasciarvisi ispirare nella resa di quel capolavoro assoluto di Effetto Notte, gli fece formulare il simpatico concetto secondo cui: «Un regista è prima di tutto un tizio che dalla mattina alla sera viene seccato da un mare di gente che gli pone domande alle quali, non sa, non vuole o non può rispondere». Ecco, a detta di Fellini: «Io spero che dopo i primi cento metri lo spettatori dimentichi che Guido è un regista, cioè un tipo che fa un mestiere insolito, e riconosca in Guido le proprie paure, i propri dilemmi, le proprie canagliate, viltà, ambiguità, ipocrisie: tutte cose che sono uguali in un regista come in un avvocato padre di famiglia».

Per il ruolo di Guido si era pensato a uno fra Laurence Olivier e Charlie Chaplin

Ma soprattutto il messaggio più importante che Fellini si augurò a proposito della visione del film: «Vorrei che il senso liberatorio che ho provato nel realizzarlo si trasmettesse a chi lo va a vedere, che dopo averlo visto la gente si senta più libera, avesse il presentimento di qualche cosa di gioioso. Non è un film triste 8½. È un film dolce, aurorale. Malinconico semmai, però la malinconia è uno stato d’animo nobilissimo: il più nutriente e il più fertile», come quel climax poeticamente prodigioso e aperto che vede sublimare tutti i tormenti, tutte le perplessità e indecisioni, pressioni e meta-spunti filmici, in un malinconico ritorno alle origini e all’infanzia reso da Fellini nella giocosità di un enorme e festoso Girotondo e nella magica musicalità del circo (topos quest’ultimo molto caro all’autore), quando bastavano le piccole cose per essere felici.

Il Girotondo, la scena madre di 8½
Il Girotondo, la scena madre di 8½

Manco a dirlo fu una lavorazione caotica e di incessante improvvisazione quella di e ad ogni livello possibile. La cosa spiazzò e non poco la statunitense Deena Boyer – all’epoca addetta stampa del regista – che gli chiese una motivazione dietro a tutto quel fermento: «Spero di poter trasmettere i tre livelli su cui vive la nostra mente, il passato, il presente e il condizionale, il regno della fantasia» le disse Fellini che dovette fare i conti con una certa improvvisazione di mezzi. Come rivelato dall’Autore tra le pagine autobiografiche di Fare un film infatti: «L’ho girato senza vedere mai quello che facevo perché era in atto uno sciopero di quattro mesi di tutti gli stabilimenti di sviluppo e stampa. Rizzoli voleva fermare il film. Ho dovuto impormi, gridare, per obbligare tutti a continuare ugualmente: è stata la situazione ideale».

Anouk Aimée in una scena di 8½
Anouk Aimée è Luisa Anselmi

Come tutti i grandi geni anche Fellini seppe cogliere il meglio da un contesto potenzialmente distruttivo come quello creatosi durante la lavorazione di , a suo dire infatti: «A me sembra che quando vai a vedere giorno per giorno il materiale girato, vedi un altro film, vedi cioè il film che stai facendo che comunque non sarà mai identico a quello che volevi fare. E il film che volevi fare rischia di mutarsi, affievolire, sparire. Questa cancellazione del film che volevi fare deve avvenire, si, ma soltanto alla fine delle riprese, quando in proiezione accetterai il film che hai fatto: l’unico possibile. L’altro, quello che volevi fare, avrà avuto così soltanto una sua determinante funzione di stimolo, di suggerimento e ora dinanzi alla realtà fotografata non lo ricordi nemmeno più: si è come scolorito, sta scomparendo».

8½
Marcello Mastroianni in una scena di 8½

Non nel caso di però che ha visto coincidere il “film che hai fatto” con il “film che volevi fare” in una miscela esplosiva di pura creatività che non è mai scolorita, scomparita, svanita, finendo con il cristallizzarsi nell’immagine filmica della pellicola così da essere custodita per sempre nelle memorie del tempo. Del resto, citando ancora le parole di Oliver Stone: «A differenza de La Dolce Vita che è un film positivamente datato – nel senso che si riferisce a un particolare momento e luogo come se fosse una capsula del tempo – 8½ è un film universale perché potrebbe essere in un posto qualsiasi e in un momento qualsiasi». Oggi come ieri, sessant’anni dopo. E fece il giro del mondo l’opera eccellente di Fellini.

A Cannes16 8½ fu presentato il 23 maggio 1963
A Cannes16 il film fu invece presentato il 23 maggio 1963

Il 23 maggio 1963 a Cannes16 – l’edizione in cui Harakiri di Masaki Kobayashi rubò la scena a tutti (potete leggerne qui qui) – saranno applausi a scena aperta. Negli Stati Uniti arriverà soltanto un mese dopo, il 25 giugno, per mano del produttore Joseph E. Levine. Uno che aveva occhio per il cinema italiano essendosi precedentemente occupato della distribuzione oltreoceano di altri grandissimi capolavori del nostro cinema come Roma Città Aperta e Paisà di Roberto Rossellini e Ladri di Biciclette, Matrimonio all’Italiana e La Ciociara di Vittorio De Sica. I diritti di li acquistò a scatola chiusa Levine per poi proiettarlo al Festival Theatre di New York City alla presenza degli stessi Fellini e Mastroianni. A mancare era Claudia Cardinale che in quel 1963 vide la definitiva consacrazione artistica.

Claudia Cardinale in una scena di 8½
Claudia Cardinale

Certo, in la sua Claudia è una presenza discreta – appena otto minuti in scena – ma essenziale. Una visione salvifica tra sogno e realtà che fa aprire ad Anselmi gli occhi sulla sua anaffettività («Perché non sa voler bene») fino a sgarbugliargli quell’inutile e vacua matassa cerebrale che lo credeva – parafrasando un po’ – «Capace di piantare tutto e ricominciare la vita da capo, di scegliere una cosa sola, esserle fedele sino a farla diventare la ragione di tutta una vita». Il motivo di una presenza narrativa così minimale in termini di minutaggio? Il conflitto di lavorazione con Il Gattopardo di Luchino Visconti che la vedrà impareggiabile Angelica, ruolo da lei definito come «Il più bel regalo della mia vita d’attrice»…

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Qui sotto potete vedere il trailer del film: 

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