ROMA – Quattro polli fritti, una Coca-Cola, fette di pane bianco tostato e un bicchiere d’acqua liscio. Tutto qui? Sì. Una dieta insolita per chiunque, non per tutti. Chi ha visto (e rivisto, e rivisto e poi rivisto ancora) The Blues Brothers lo sa già: è l’ordinazione-tipo dei Jake ed Elwood Blues di John Belushi e Dan Aykroyd. Perché l’opera musicale di John Landis è sempre stata molto più che un semplice film. È una venerazione. Un culto, una religione. Una missione per conto di Dio. Facciamo un passo indietro però, perché così comprendiamo come nasce un capolavoro. Belushi e Aykroyd erano parte integrante di quella stagione di SNL – Saturday Night Live di cui proprio Belushi, dopo l’addio di Chevy Chase, divenne cuore, anima, e guida comica, con a fianco un gruppo di artisti eccezionali tra cui Bill Murray, Eddie Murphy, Steve Martin, e il Monty Python Eric Idle.

In cinque anni di attività con il SNL (1975-1980) Belushi portò in scena 49 personaggi differenti. Beethoven, Gandhi, Mussolini, Hitler, Kissinger, Zappa, Cocker: tutti caddero sotto i colpi della dissacrante scure comica. La sua era infatti una comicità parodistica e di imitazioni. Come nel caso di Samurai Futaba, reinterpretazione del Samurai Yojimbo (Toshirō Mifune) del leggendario jidai-geki La sfida del samurai di Akira Kurosawa, che Belushi rese folle nello sketch SNL Samurai Hotel del 1975. Arrivò poi il turno di Jake Blues che dopo un’apparizione apocrifa (e vestito da ape) nello sketch The Killer Bees del 1976 assieme al fratello Elwood e agli Howard Shore and his All-Bee Band, vide nel 1978 il battesimo Blues a partire dallo sketch Rock Concert.
L’inizio di un’ascesa che vide iBlues Brothers sbarcare sul mercato discografico con Briefcase Full of Blues (il primo dei quattro album con Belushi) che nel 1978 raggiunse la posizione numero 1 della Billboard 200 ottenendo due dischi di platino. Il cinema era l’inevitabile step successivo. Le offerte degli Studios fioccarono. La spuntò la Universal che dopo Animal House puntò su Landis (che per dirigerlo rinunciò a Polpette degli amici Ivan Reitman e Harold Ramis) così da riunire l’accoppiata con l’ex-Bluto Belushi. Senza un bilancio e un copione, Lew Wasserman della Universal riteneva 12 milioni di dollari una cifra sufficiente: Landis ne chiese 20. Ne costerà 30. Un innalzamento dei costi frutto di uno spirito registico residuato new-hollywoodiano che si dice fosse il motore dietro alla presunta rivalità artistica Steven Spielberg/John Landis.

L’oggetto della contesa? Realizzare il film più costoso di sempre: 1941 – Allarme ad Hollywood (che “vinse” sfiorando i 35 milioni di dollari di budget) e The Blues Brothers. Del resto, pettegolezzi a parte, il primo draft di sceneggiatura redatto da Aykroyd era parecchio denso. Si intitolava The Return of the Blues Brothers ed era stato concepito come un film in due parti. Oltre 320 pagine di suggestioni, concetti, idee, riprese, passaggi tra cui la backstory di tutti i personaggi ma senza uno sviluppo narrativo in tre atti. Più una bible che una sceneggiatura. Aykroyd la fece recapitare al produttore Robert K. Weiss firmandosi Scriptatron GL-9000. Un piccolo scherzo: gli piaceva auto-definirsi uno scrittore automatizzato. A Landis il difficile compito di snellire la mole del lavoro di Aykroyd rendendolo qualcosa di somigliante ad una sceneggiatura. Ci riuscì.
Perché? Ma perché The Blues Brothers è la piena e più alta espressione del tipico tocco alla Landis. Il creare comicità su narrazioni dall’impianto tipicamente drammatico rimanendo sempre sulla linea sottile di demarcazione tra il comico e il surreale, lo straniante e il grottesco, alterando gli equilibri della sospensione dell’incredulità (impossibilità comica). Ne viene così fuori un’opera affascinante come soltanto il successivo Tutto in una notte. C’è veramente tutto in The Blues Brothers: due comici come Belushi e Aykroyd al massimo splendore, car chase incredibili, romanticismo, umorismo incisivo condito da battute iconiche. E la miglior colonna sonora possibile.

Non parleremmo oggi così di The Blues Brothers senza la musica che lo ha reso grande (Everybody Needs Somebody To Love, Sweet Home Chicago, Theme From Rawhide, Peter Gunn Theme, She Caught The Katy), o le leggendarie guest star canore (Cab Calloway, Ray Charles, John Lee Hooker, Aretha Franklin, James Brown) e relative hits (Minnie The Moocher, Shake a Tail Feather, Boom Boom, Think). Eppure sembrerebbe che ad un certo punto della pre-produzione i vertici della Universal avessero idee diverse a proposito del blues di The Blues Brothers: sarebbe dovuto essere Funk-Soul-Dance (Donna Summer, Chaka Khan, Rose Royce). Secondo le indagini di mercato della Universal lo avrebbe reso commercialmente più appetibile. Aykroyd, Belushi e Landis fecero muro difendendo il Blues essenziale per l’economia del racconto (basti pensare all’intera backstory di Jake ed Elwood) salvandolo così da un più che probabile suicidio artistico.
Larga parte del retaggio di The Blues Brothers però sarebbe nulla senza John Belushi. Autentico mattatore dalla mimica irresistibile capace di settare a suo piacimento i tempi comici dell’alchimia con Dan Aykroyd. Dei suoi personaggi Belushi ha sempre apprezzato l’imperfezione: «I miei personaggi dicono che va bene essere incasinati. La gente non deve essere perfetta». E Jake Blues in particolare, con la sua caratterizzazione adorabile ma caotica, ne rappresenta un esempio lucido: «La maggior parte dei film di oggi fa sentire la gente inadeguata. Io no». Purtroppo però Belushi era incontenibile anche a telecamere spente. Ottenne ben due soprannomi durante la lavorazione: Il Buco Nero per via della sua incapacità di tenersi lo stesso paio di occhiali da sole – gli iconici Ray-Ban Wayfarer – per più di una scena, e più scherzosamente America’s Guest perché solito presentarsi nelle case vicine per farsi dare da mangiare. Effetto quest’ultimo ascrivibile ad una dipendenza da cocaina che sul set raggiunse il punto più alto e critico. E non solo perché, come dichiarato da Aykroyd qualche anno più tardi, la voce cocaina rientrava nei costi di produzione. Belushi la riteneva necessaria al fine di rendere migliore la sua recitazione.

Se non riusciva a procurarsela sul set andava in città. Era una celebrità del resto. La sua dipendenza era nota a tutti. Chicago era così diventata il paese dei balocchi stupefacenti. Si raggiunse il punto di non ritorno quando, durante le riprese, Belushi si rifiutò di uscire dalla sua roulotte perché incapace di stare in piedi. Landis piombò su di lui e dopo aver gettato nel water la scorta di cocaina gli disse che non avrebbe più sopportato simili scemenze. Belushi in tutta risposta lo attaccò. Landis reagì sferrandogli un pugno che lo fece crollare per terra in lacrime. C’è tuttavia un aneddoto divertente a proposito di Belushi e della lavorazione di The Blues Brothers. Un aneddoto che per una volta esula dalle sue problematicità ricordandoci il lato migliore di lui: quello generoso e buono. Ad Akron (Ohio) la classe 1980 della Springfield High School ebbe una grande sorpresa tra le pagine dell’annuario scolastico: Belushi e Aykroyd nelle vesti di Jake ed Elwood Blues. Il motivo? Lo zio di Belushi. Era il proprietario di uno studio fotografico di Akron.
Una tappa della lavorazione di The Blues Brothers coincise proprio con gli ultimi giorni di scuola della Springfield High School. Come favore entrambi accettarono di apparire in alcune foto assieme agli studenti. Tra queste, una in cui Belushi posa con in una mano una macchina fotografica e nell’altra un cartello: “Sembro cattivo, ma sorrido!”. Frase emblematica che rappresenta la perfetta espressione dell’essere Belushi e di quella frattura che albergava nella sua anima tra i chiassosi eccessi nel pubblico e e la generosità nel privato. Il Dopo-The Blues Brothers vide Belushi distinguersi in due opere poco apprezzate, ma da riscoprire: Chiamami aquila (a detta di Jim Belushi il film che più si avvicina al John-familiare) e I vicini di casa (dove tornerà a recitare con Aykroyd per la terza e ultima volta). Entrambe ci raccontano un Belushi attore di razza. Espressione variegata, tra il dramma romantico e la commedia nera, del suo talento strepitoso ed inesplorato. Ed è proprio questo ciò che ci rimane a quarantatrè anni da quel 5 marzo: il rimpianto di averne potuto scrutare appena la superficie. Avrebbe dovuto recitare con Aykroyd ancora una volta – la quarta – in Ghostbusters nei panni di Peter Venkman. Il ruolo andò poi a Bill Murray che è vero, lo onorò al meglio. Sembra però che nemmeno la morte abbia impedito a Belushi di prendervi parte.

Vi ricordate del personaggio di Slimer, vero? Pare sia stato inserito da Aykroyd soltanto nel penultimo draft. Scherzando, diceva che il fantasmino verde era lo spirito dell’amico scomparso. E in effetti, se nel rileggere a posteriori molti dei gesti di Slimer non può non tornare alla mente quella carica vitale goffamente distruttiva del Bluto di Animal House, è pur vero come il gesto della cattura da parte degli Acchiappafantasmi in una delle scene iconiche va ad arricchire Ghostbusters di una certa carica malinconica tra le righe. Come un romantico tentativo di tenere con sé e riportare in vita – almeno nella finzione – il Belushi collega/partner/amico fraterno attraverso i piccoli gesti di ogni giorno. Qualcosa che nella vita reale sarebbe impossibile fare. Al cinema però, specie se indossi uno zaino protonico sulle spalle, lì si che puoi riuscirci.
- LONGFORM | Tutto in una notte, quarant’anni dopo
- REVISIONI | Polpette, un cult da riscoprire
- VIDEO | Qui una delle (molte) scene cult di The Blues Brothers.
Lascia un Commento