ROMA – Fredda, asettica, estetizzante, estrema. Nicolas Winding Refn (introdotto con l’hashtag della sua piattaforma #ByNWR prima di ogni puntata) ha sempre inseguito un certo manierismo, una certa idea di cinema che predilige (soprattutto) le forme perfette, le immagini ineccepibili. Con quello studio della luce (al neon) degna di un metropolitano Caravaggio. Lo ha sempre fatto – più o meno – nei suoi film (del resto, è figlio di una fotografa), lo rende quasi aulico nella sua ambiziosa serie Too Old to Die Youg. Dieci puntate, ognuna dalla durata quasi cinematografica.

In mezzo, un tempo dilatato, quasi inesistente. Solo immagini, e una storia – scritta da lui e dal celebre fumettista Ed Brubaker – che sta rinchiusa tutta in una riga: Martin, poliziotto di Los Angeles, si ritrova invischiato in un dramma che scotta, incrociando il passo con Jesus (Auguro Aguilera), esponente di un Cartello Messicano. Così, sarebbe quasi un errore dire che la serie – arrivata su Amazon Prima Video – sia davvero una serie tv. È qualcosa di più conturbante, di più ibrido. È cinema, è teatro, è fotografia. E di televisione, c’è poco. Allora, per questo, #TOTDY diventa qualcosa di irresistibile. Ci canalizza nella sua aria apocalittica, dove non c’è traccia di luce, né di speranza.

I buoni, per le strade vuote di San Fernando Valley, sono morti tutti. Solo diavoli e polvere. E il Martin di Miles Teller (bravissimo, in una impassibile maschera) diventa per Refn il tramite esasperato del regista, facendolo scendere in un inferno di ombre ed effimeri neon, dipingendo una Los Angeles inquietante e brutale. Del resto, Refn sta alla Città degli Angeli come Martin Scorsese sta a New York, e inquadra così quell’onnisciente personaggio fatto di cemento e illusione come il motore di tutta la storia: criminalità, vendetta, religione. I temi di Refn li ritroviamo tutti, il suo gusto per l’eccesso di sottrazione, pronta ad esplodere all’improvviso. In mezzo al deserto o nella cabina di un ascensore.

Per il regista, per lo stesso Miles Teller (sarebbe stato un ottimo Batman, a pensarci bene…) la sceneggiatura diventa secondaria, e sta quasi allo spettatore decidere da quale prospettiva leggerla. Martin o Jesus? Quale dei due bisogna seguire, nella discesa senza freni attraverso un inferno d’asfalto e sudore? Probabilmente, nessuno. Refn non vuole intrattenere, non gli interessa raccontare una storia. Segue il flusso degli eventi, mischia le culture – americana, messicana, orientale – esaltandone una certa magia e certa metafora: decadente da una parte, perversa dall’altra.
E poi lo score, ancora una volta eccezionale: oltre a diversi brani di Frankie Miller e dei Goldfrapp, l’immaginario antisettico di Refn viene esaltato da Cliff Martinez (con lui già nel capolavoro Drive e nel sottovalutato Only God Forgives) e dalla sua colonna sonora. Un tripudio di sonorità elettroniche, mischiate a quelle digitali, finendo a giocare con gli archi e con i fiati, rendendo Too Old to Die Young un’esperienza completamente diversa. Per intenzioni, personaggi, atmosfere. E messaggi. Perché, dietro la perfezione delle inquadrature, la serie cela una profonda disamina di cosa sia diventata l’America di oggi. «Questa serie mi sembra una reazione a quello che sta accadendo nel mondo», ha detto Refn, «e sottolinea il fatto che, a mio avviso, l’Apocalisse è vicina e l’umanità sta pian piano degenerando».
- Nicolas Winding Refn: «Too Old To Die Young? Un’opera tra Shakespeare e l’Apocalisse»
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