MILANO – La paura del portiere prima del calcio di rigore. Così Wim Wenders aveva titolato il suo secondo film da regista, nel 1972, parabola di un uomo e della sua fuga verso il nulla. La pellicola parlava d’altro, ma il titolo era esemplificativo della solitudine che – pur in un affollato campo di calcio, pubblico compreso – subisce sempre e suo malgrado chi deve difendere i pali e che quasi sempre se ne sta isolato dagli altri. Così eccoci improvvisamente dentro la vita di Walter Vismara (Alberto Paradossi, una rivelazione), trentenne – se non del tutto giusto, quasi niente sbagliato per dirla alla De André – che vive a Vigevano negli anni Sessanta e ama condurre una vita ordinata. Sì, lui è ragioniere nell’animo prima ancora che di professione, quieto in famiglia, saggio e pavido, contabile in una piccola ditta diretta dal commendator Galbiati (Antonio Catania) che però un giorno, vista l’imminente chiusura, consiglia Vismara ad un’azienda di Milano, al servizio dell’imprenditore Tosetto (Giovanni Storti).
E qui si apre un mondo, perché Tosetto ama il folber – ovvero il football secondo Gianni Brera – e obbliga i dipendenti a sfide scapoli contro ammogliati. Ma si apre anche il mondo di Milano che non si ferma mai un momento e che trova il povero Walter fuori dai pali, per continuare i rimandi calcistici, spiazzato malamente anche dalla sorella Elvira (Anna Ferraioli Ravel, appena vista anche in Un altro Ferragosto di Virzì), che alla vita corre dietro senza problemi e senza troppi pensieri. Si vive perché si è vivi, tanto basta, no?. Walter considera il calcio uno sport demenziale, si dichiara portiere perché è l’unico ruolo che conosce e l’ingegner Gusperti (Walter Leonardi, insopportabile e bravo) lo ribattezza sarcasticamente Ricardo Zamora Martínez detto Zamora, il leggendario portiere spagnolo degli anni Trenta. Non solo: il Gusperti gli contende anche Ada (Marta Gastini, che sembra davvero uscita dagli anni Sessanta), la segretaria di cui Walter si innamora. Sempre timidamente, va da sè, che la passione non si sa mai.
Non si dica di più perché poi Zamora diventa altro, diventa una favola che parla di sconfitti e di sentimenti, di palloni di cuoio e bottiglie di rosso, figure poetiche che il bravo Roberto Perrone – grande giornalista scomparso troppo presto e tifoso genoano – aveva evocato nell’omonimo libro da cui è tratto il film e che Marcorè è bravo a materializzare e a rendere vive. Così ecco Giorgio Cavazzoni, una sorta di Albertosi finito in disgrazia (interpretato dallo stesso Marcorè) che riassume il dualismo tra vita e calcio: era un idolo in campo, sempre pronto alla parata, fuori è solo un uomo perso, pieno di debiti e di vino. La coppia Vismara & Cavazzoni – quasi come fossimo nelle pagine di Galeano e per un attimo sembra di starci – diventa così una coppia di stampelle che si sorreggono l’un l’altro. Triste, solitario y final? Forse. Perché il calcio è uno sport, sì, ma è sempre e solo il riassunto della vita, dei significati che uno mette in quella palla che gira senza meta.
Non era facile rendere un film così corale (ci sono anche Ale & Franz e un Giovanni Esposito versione barista) anche un film così solido, ma Marcorè non solo ci riesce, ma non sbaglia una faccia (attenzione a Pia Engleberth) e alla fine fa anche un clamoroso pallonetto, perché riesce a costruire una commedia intelligente, quasi all’inglese, in cui tutto ha un doppio significato. Perché? Ma perché l’odore della terra del campo è soprattutto quello della vita, la stessa di cui ha paura Walter. Un film che non sbaglia mai i tempi, non forza la mano, conduce lo spettatore in un tempo in cui tutto sembrava possibile, ma attenzione, perché anche gli anni Sessanta sono – ancora una volta – solo una cornice perché poi il coraggio va trovato e sul campo della vita bisogna sempre scendere se si vuole giocare. Oggi come ieri. Che si vinca o si perda poi, non è più importante. Cercatelo, guardatelo e amatelo perché Zamora è davvero un film che vi riscalderà cuore e testa…
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