MILANO – Celeste (Natalie Portman) sopravvive alla strage perpetrata da un suo compagno di scuola. Celeste rompe il legame di simbiosi con la sorella maggiore (Stacy Martin). Celeste ha sancito un patto con il diavolo, per cui canterà sempre la canzone melodica perfetta che rappresenta lo spirito del tempo: speranza, amore, futuro. Dietro a queste parole, le melodie sono di plastica, vacue, servono soltanto a nascondere il vuoto pneumatico di una generazione che ha perduto ogni ideale, ogni punto di riferimento e a cui non resta altro che pregare. Il pop non ci salverà, ma ci permette di non pensare, di sublimare il deserto emotivo in spensieratezza.
Vox Lux – opera seconda di Brady Corbet e ora in streaming su Tim Vision dopo un lungo viaggio partito da Venezia 75 – è l’analisi sulla mortifera capacità dell’America e della società occidentale del Ventunesimo Secolo di superare i traumi con l’inganno dello show, nonostante il vestito indossato sia cupissimo, inquietante, programmatico. Un’opera spiazzante sulla (in)consistenza della superficie, che riflette sulla tensione per l’autodistruzione di una diva dalla voce angelica che non muore per miracolo ma che è già morta dentro, una Portman di bravura disturbante, a metà tra il look stravagante e dark di una specie di Arisa a stelle e strisce e il buio interiore di un cigno nero.
Lo stile di Corbet è personalissimo, sembra omaggiare inizialmente il Gus Van Sant di Elephant per poi deviare verso una discesa agli inferi di un mondo, un’industria, uno star system che lascia esterrefatti, perché è ciò che ci circonda e non ce ne rendiamo conto: intanto, sullo sfondo, le stragi si consumano, mentre la radio trasmette la stessa canzone “over-prodotta” che rassicura e fa ballare. Il primo piano finale su un grande Jude Law, produttore che assiste passivamente all’oscuro deragliamento, è un memorabile momento di disincanto contemporaneo. Attenzione anche al doppio folgorante ruolo di Raffey Cassidy, che interpreta sia Celeste da bambina che la figlia teenager Albertine.
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