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The Last Black Man in San Francisco | Una favola urbana, tra (grande) cinema e appartenenza

Gentrificazione e amicizia, identità e dramma sociale in un film splendido finalmente in digitale su Netflix

The Last Black Man in San Francisco
Film Society e Hot Corn portano per la prima volta in Italia sul grande schermo The Last Black Man in San Francisco

ROMA – «È la storia d’amore tra un uomo e una casa». Joe Talbot sintetizza così il suo, The Last Black Man in San Francisco, film d’esordio datato 2019 che Film Society e Hot Corn hanno portato per la prima (e unica) volta in Italia sul grande schermo la scorsa estate e che ora è arrivato, finalmente, in streaming su Netflix. Una storia dai contorni biografici ispirata alla vita del migliore amico del regista, Jimmie Fails, il protagonista (omonimo) del film che ha passato l’infanzia da una casa in affido all’altra dopo che la sua fu pignorata per i mancati pagamenti dell’affitto da parte del padre. Un film nato grazie a un trailer di presentazione caricato su Kickstarter per lanciare una campagna di crowdfunding che, in un solo mese, ha ottenuto 25.000 dollari sui 50.000 richiesti.

Jimmie Fails in una scena del film

Un’iniziativa capace di attirare l’attenzione della Plan B di Brad Pitt che ha chiamato Talbot sul set di Ad Astra per dirgli che avrebbe prodotto il suo debutto al lungometraggio. Ambientato tra il Fillmore District, un tempo considerato l’Harlem del West ed ora zona del tutto riqualificata, e Hunters Point, un quartiere a basso reddito costruito su rifiuti tossici, The Last Black Man in San Francisco, si apre come se fosse un film post apocalittico. Degli uomini con delle tute antiradiazioni stanno ripulendo le strade della periferia inquinata della Bay Area mentre Jimmie e il suo migliore amico, l’aspirante drammaturgo Mont Allen (Jonathan Majors), aspettano invano un bus che li porti nel centro città dove il protagonista si reca per fare manutenzione (non richiesta dai nuovi inquilini) in quella che considera ancora la sua casa.

The Last Black Man in San Francisco
La casa vittoriana al centro di The Last Black Man in San Francisco

Nonostante sia una costruzione vittoriana, il ragazzo si ostina a raccontare a tutti che quell’abitazione l’ha costruita nel 1946 suo nonno, il primo nero di San Francisco, in quello che un tempo era un quartiere abitato prevalentemente da nippo-americani, prima che venissero rastrellati per essere portati nei campi di internamento del dopoguerra. The Last Black Man in San Francisco, fin dalle sue prime scene, non fa altro che raccontare, in un’atmosfera quasi fiabesca, le conseguenze della gentrification. Una parola dal suono musicale, quasi dolce, dietro cui, in realtà, si nasconde uno dei nuovi volti del colonialismo che continua a modificare il volto di un’America incapace di unire le sue anime. L’ex Harlem del West è ora un luogo abitato da bianchi ricchi che guardano a Jimmie e Mont con sospetto, come entità aliene in un luogo che prima apparteneva a loro e che ora non li riconosce.

Jimmie Failis, Jonathan Majors e Danny Glover in una scena del film

Un tema quello della gentrificazione già trattato in altri film recenti come Medicine for Melancholy di Barry Jenkins, Blindespotting di Carlos López Estrada o Sorry to bother you di Boots Riley ma che The Last Black Man in San Francisco ha il merito di saper infondere di una dolcezza mista a malinconia e ironia grazie al rapporto profondo dei suoi protagonisti. Jimmie e Mont sono ben diversi nei modi e nel linguaggio dalla gang di afroamericani che staziona davanti la casa del nonno di Mont, interpretato da un gigantesco Danny Glover. Questo è un altro tema che Joe Talbot e il suo co-sceneggiatore Rob Richert inseriscono nel film: l’abbattimento degli stereotipi. Perché i due amici sono lontani anni luce dall’immagine dell’afroamericano del ghetto, ma anche perché i componenti di quella stessa gang che li sfotte per il loro rapporto di amicizia viene mostrato come “vittima” di un contesto sociale nel quale sono intrappolati.

The Last Black Man in San Francisco
Un’immagine di The Last Black Man in San Francisco

The Last Black Man in San Francisco è un film sull’identità e l’appartenenza che Jimmie fa coincidere con quell’elegante edificio bianco, unico vero luogo dal quale si sente rappresentato. “I’m not homeless, I’m housless” diceva Frances McDormand in Nomadland. E in modo simile Jimmie non è un senza tetto ma è senza casa, la sua. Attraverso gli occhi suoi e di Mont vediamo San Francisco mutare, tra cantieri a cielo aperto e riqualificazioni che ampliano sempre di più i confini delle periferie, tour di turisti in Segway e annunci immobiliari. Ma quello di Joe Talbot non è un film cupo, tutt’altro. La fotografia calda e avvolgente di Adam Newport-Berra – aiutata dalla colonna sonora di Emile Mosseri – amplifica i colori brillanti di un film attraversato dalla voglia di riscatto di Jimmie, simbolo di un’intera comunità.

Una scena del film

C’è fermento e dolcezza, vitalità e rivalsa e quella rabbia necessaria per continuare a lottare nelle azioni dei due amici che Talbot segue con la macchina da presa in un esordio anche registicamente folgorante (non a caso vinse il premio come Miglior Regia al Sundance oltre a quello speciale della giuria). L’uso del rallenty, i campi lungi e i primi piani, le carrellate con Jimmie e Mont che sfrecciano in due sullo skate in una città che si dipana tra continue salite e discese e che sembra seguire l’andamento della vita stessa fatto di cadute e risalite. The Last Black Man in San Francisco è un film avvolto da una patina di magia, una favola urbana dietro cui si cela un dramma sociale che ha trasformato il profilo della città californiana tradendo la sua vocazione all’inclusione ma a cui Talbot e Fails dedicano anche un sincero atto d’amore. «You can’t hate it until you love it».

  • The Last Black Man in San Francisco: il film di Joe Talbot arriva in Italia

Qui sotto potete vedere il trailer del film:

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