ROMA – Come evento speciale, nel 2016, usciva The Boy and the Beast, quinto lungometraggio di Mamoru Hosoda. Una delle tante uscite evento che spiega il particolare rapporto che da sempre l’Italia nutre verso le produzioni orientali, specialmente quando si parla di un pubblico più ampio. L’attenzione verso la pellicola fu molta, anche perché l’opera in Giappone era già uscita un anno prima – l’11 luglio del 2015 – riscontrando un grande successo di pubblico. Quando si parla di cinema giapponese, specialmente del cinema d’animazione, ci si imbatte in un linguaggio particolare che si discosta dalle rappresentazioni figurative a cui noi occidentali siamo abituati. Nonostante questo – o forse proprio per questo – il valore espressivo di questi artisti è riuscito a guadagnarsi un posto di tutto rispetto nel nostro immaginario, anche commerciale. Pur essendoci uno stacco culturale, negli anni la cura verso questo genere di lavori ha suscitato sempre maggiore interesse, uscendo da quei limiti invisibili, ora sempre più sottili.
Tutti conoscono lo studio Ghibli, eppure anche Mamoru Hosoda è riuscito, nel corso della carriera, ad arrivare a toccare il cuore dell’Occidente. La sua è stata una carriera lunga e disegnata da alti e bassi, ma perfettamente coerente con la visione di regista e con il modus operandi con cui lo abbiamo visto modellare anche l’opera più recente: Belle. Per capirlo meglio però la visione consigliata è The Boy and The Beast – che trovate su Prime Video. «Quando ho deciso di diventare regista e di dedicarmi all’animazione non avrei mai immaginato che avrei dedicato un film al tema della famiglia», disse Hosoda in riferimento al film. Differentemente dai lungometraggi precedenti (La ragazza che saltava nel tempo, Summer Wars e Wolf Children) qui però la narrazione pare prendere una piega del tutto differente e molto più action rispetto al passato.
L’incipit di The Boy and the Beast mette in chiaro l’anima “guerriera” di ciò in cui si sta per entrare, con un’introduzione che ricorda le favole classiche: esiste, in poche parole, un mondo delle bestie e un mondo degli umani. In quello delle bestie viene selezionato un maestro per ricoprire il ruolo di Gran Maestro. Questa figura non soltanto si pone l’obiettivo di guidare il proprio mondo, ma anche quello di reincarnarsi, prima o poi, in un dio (denominato Kami a sottolineare la forte ispirazione scintoista alla base del film). Per scegliere il gran maestro si disputa una sorta di torneo a cui possono partecipare solo i maestri migliori. A contendersi la posizione troviamo Kumatetsu e Iozen, un orso e un cinghiale antropomorfi. Hosoda, quindi, mette in chiaro fin da subito quelle che sono le regole di questo mondo, per poi traslare la narrazione. Il vero protagonista del film però è un bambino: Ren. Lo conosciamo in un momento particolare della sua vita. Ha perso la madre e il padre lo ha abbandonato alle cure di alcuni parenti. Ed ecco che ritornano le tematiche classiche attraverso cui abbiamo conosciuto Hosoda.
Lo slice of life s’impone sulla narrazione più affabulante delle prime scene, intessendo la trama verso un realismo tematico tangibile. Vediamo quindi Ren scappare da ciò che la vita parrebbe avergli riservato, per confondersi nell’amalgama umana e indefinita di Tokyo. Lo scontro fra il mondo degli adulti e quello dei bambini si fa evidente fin da subito, ricordando alcuni dei primissimi lavori, come Digimon Adventure del 1999 o Digimon Adventure: our war game. Il rapporto fra piccoli e grandi resta una delle cifre stilistiche di Hosoda, qui più forte che mai. Ren, quindi, si ritrova da solo e senza guida finché non s’imbatte in due strani esseri, due bestie, e seguendole finisce con l’entrare nel loro mondo. La differenza stilista fra lo Jūtengai (il regno in cui è appena entrato) e Tokyo è fortissima. Si tratta di due posti agli antipodi, in cui si respira “aria di favola” in ogni scorcio. Resta curiosa la forte somiglianza che questo mondo parallelo ha con la Città Incantata di Hayao Miyazaki. Non tutti sono a conoscenza del fatto che Hosoda collaborò per un brevissimo periodo della sua vita con lo studio Ghibli. Venne infatti assunto per lavorare al progetto dietro al Castello errante di Howl.
Quella però non si rivelò un’esperienza fruttuosa, culminata con un fallimento e un distacco dallo studio. L’idea che un po’ dell’ispirazione per questo film possa provenire dallo studio Ghibli, soltanto dal punto di vista estetico, non risulterebbe troppo inverosimile, anche se mai confermata. Nello Jūtengai il ragazzo troverà nuove amicizie, venendo selezionato come discepolo da Kumatetsu, anche se sarà un obbligo inatteso più che un onore. Qui vengono introdotti anche Tatara e Hyakushūbō, grandi amici di Kumatetsu e presto compagni leali di Ren. Fin dalle prime dinamiche a legare questi tre personaggi si può notare il tocco del regista. Il loro è un rapporto disfunzionale e particolareggiato dai caratteri a disegnarli. Il legame più complicato è proprio quello fra il giovane e il suo maestro. Quest’ultimo, infatti, è lontano da qualsivoglia stereotipo, d’indole aggressiva e istintiva, deve imparare a domare se stesso per poi cercare di trasmettere qualcosa.
Così subentrano altre due tematiche centrali sia del film che della poetica di Hosoda stesso. Ren ha bisogno di un mentore anche se non vuole ammetterlo, ha bisogno di qualcuno che lo guidi e indirizzi, che canalizzi la sua identità. La ricerca di se stessi diventa un motivo trainante non soltanto di trama, ma anche nella caratterizzazione del giovane, sviluppandosi di scena in scena. In funzione di ciò si viene a costruire intorno a Ren una vera e propria famiglia surrogata, riallacciandoci quindi alla frase a inizio articolo. Tornando sempre sulla carriera di Hosoda, ritroviamo anche il tema del “bivio”. Il giovane dovrà, da un certo momento in poi, cercare alcune risposte dentro di sé funzionali alla sua identità e a quello che vorerebbe diventare. Il mondo delle bestie e quello degli esserli umani non sono soltanto due luoghi tangibili, ma strade perfettamente percorribili.
Entrambe appartengono al cuore del giovane, entrambe lo hanno definito in qualche modo. Tutto si complica nel momento in cui Ren si ritrova a dover scegliere, introducendo un altro importantissimo lato di The Boy and the Beast, che non approfondiamo troppo per non rovinare la visione. Ecco che la “favola” di un giovane guerriero diventa tutt’altro nelle mani di questo regista, trasformandosi in uno studio introspettivo e in un racconto di formazione. Una storia che attinge dalle leggende giapponesi e da quelle cinesi, rivelando un lato del regista molto più filosofico rispetto al passato, cercando di andare oltre i classici cliché del rapporto allievo/maestro, divenendo anche pedagogica. «L’insegnamento non è una strada a senso unico, e questa cosa si capisce anche dai dialoghi del film. Credo che lo stesso valga nei rapporti tra genitori e figli, dove ci s’insegna a vicenda le cose. E poiché parlo spesso della famiglia nei miei film, sono tutti temi che riaffiorano spesso, perché li considero davvero importanti…».
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