ROMA – Quando Paul Schrader divorziò dalla moglie, negli anni Settanta, si ritrovò a vivere in macchina. A fargli compagnia aveva nel cruscotto un libro: An Assassin’s Diary, ovvero i diari tenuti da Arthur Bremer che, nel 1972 a Laurel, nel Maryland, aveva tentato di uccidere George Wallace, al tempo candidato democratico alle presidenziali americane. Quelle pagine erano i deliri di un uomo alienato che, insieme alla letteratura esistenzialista – La nausea di Sartre e Lo straniero di Camus – e l’Ethan Edwards di John Wayne in Sentieri Selvaggi, divennero poi l’ispirazione per costruire il personaggio di Travis Bickle, ovvero il protagonista della sceneggiatura di un film che diventerà poi uno dei pilastri del cinema moderno: Taxi Driver di Martin Scorsese, che ora arriva di nuovo al cinema per tre giorni, fino al 2 aprile in versione restaurata in 4K.

Presentato la sera dell’8 febbraio 1976 a New York, il film – Palma d’oro a Cannes e quattro nomination a vuoto agli Oscar – si apre sulle note della melodia languida del sax scritta da Bernard Herrmann, leggendario compositore dei film di Alfred Hitchock, morto proprio la notte in cui finì le sessioni di registrazione di Taxi Driver, il 24 dicembre 1975. Dopo l’apertura, la pellicola passa a inquadrare lo sguardo del protagonista, interpretato da Robert De Niro. Ventiseienne, ex marine reduce dal Vietnam, affetto da insonnia cronica, Travis trascorre le notti a guidare un taxi per le strade di New York e le giornate immerso tra le pagine del suo diario e nel buio delle sale di cinema porno. È solo in una città, come ci mostrano le inquadrature di Scorsese, colma di persone, caotica. La sua alienazione si traduce in risentimento che monta fino a diventare odio contro chi reputa responsabile del degrado, dell’ipocrisia e dell’indifferenza che attanagliano New York e l’America.

A farlo piombare in un delirio criminale il rifiuto di Betsy (Cybill Shepherd), membro dello staff elettorale del senatore candidato alle presidenziali Palantine e la volontà della giovane prostituta Iris (Jodie Foster) di restare con il suo protettore Sport (Harvey Keitel). Travis si trasforma così in un giustiziere pronto a riportare ordine e pulizia in una città corrotta. Sarà lui, deluso da tutti, il «diluvio universale» che ripulirà le strade. La sua divisa è una giacca dell’esercito e un taglio alla Mohawk, il suo Manifesto racchiuso nelle pagine scritte di suo pugno nel diario. Martin Scorsese e Paul Schrader in Taxi Driver fotografano l’America post Vietnam in un noir dalla forte connotazione psicologica con cui raccontano l’abisso dell’animo umano attraverso la parabola di un uomo senza più punti di riferimento.

La fotografia di Michael Chapman mostra una New York illuminata dai neon delle insegne dei diner aperti h24, tra il rosso e il verde dei semafori da cui Travis osserva il mondo che lo circonda ma dal quale è escluso. A rivederlo oggi, quasi cinquant’anni dopo, Taxi Driver stupisce per la sua attualità, tra cittadini giustizieri, alienazione, misoginia e razzismo. E ci riporta alla mente più di una similitudine con il Joker di Todd Phillips di qualche anno fa, a riprova di come il film di Scorsese, insieme a Re per una notte, sia stato ispirazione fondamentale per il pagliaccio di Gotham City (e non è un caso se il presentatore Murray Franklin fosse interpretato proprio da De Niro). Oscuro, violento, sperimentale, sensuale, amaramente ironico, disperato: Taxi Driver ancora oggi rimane un sogno allucinato, tra movimenti lentissimi e quel repentino sguardo finale di Travis…
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