MILANO – Il red carpet, i flash, look e celebrità: la notte degli Oscar è ogni anno una delle cerimonie più attese da giornali, TV e spettatori di tutto il mondo, nulla da dire. Che dire però dei (tanti) esclusi che ogni edizione l’Academy miete inesorabilmente, andando ad allungare una lunga lista di capolavori in seguito celebrati dal tempo? Un esempio clamoroso? Molto facile: Taxi Driver di Martin Scorsese, che da sempre fa parte della categoria dei perdenti di lusso, un cult che la notte del 28 marzo 1977, al Dorothy Chandler Pavilion, venne clamorosamente snobbato. Eppure la Palma d’oro vinta a Cannes l’anno prima e le quattro nomination tra cui miglior film – che erano anche poche – lasciavano sperare. Invece Scorsese fu perfino lasciato fuori dalla candidature per la miglior regia (una follia!), mentre furono candidati John G. Avildsen per Rocky, Alan J. Pakula per Tutti gli uomini del presidente, Lina Wertmüller per Pasqualino Settebellezze (prima donna a ricevere la nomination!), Ingmar Bergman per L’immagine allo specchio e Sidney Lumet per Quinto potere.
Solo quattro nomination, tra cui quella a Jodie Foster e alla colonna sonora postuma di Bernard Herrmann (che era morto un anno prima, nel dicembre del 1975), ma nessuna vittoria, senza contare che nemmeno la fotografia incredibile firmata da Michael Chapman venne minimamente considerata. Il fiasco fu di proporzioni clamorose (De Niro non si presentò neppure in sala quella sera) eppure Taxi Driver – soprattutto ripensandoci quarantasette anni dopo – avrebbe meritato almeno sette Oscar (metteteci anche montaggio e sceneggiatura) visto che oggi risulta ancora di incredibile attualità (soprattutto) per uno spettatore contemporaneo. Il tema dell’alienazione dell’individuo davanti a se stesso, e ancor di più dinanzi ad una società divorata dal consumismo, dai mass media e dalla globalizzazione, sono di evidente matrice camusiana – autore a cui lo sceneggiatore Paul Schrader dichiarò di essersi ispirato per il ruolo del tassista, Travis Bickle. Facile infatti individuare delle analogie tra il personaggio interpretato da De Niro e Mersault, l’apatico protagonista de Lo straniero di Camus.
Ma chi è Travis Bickle? Un ventiseienne sociopatico, reduce dal Vietnam, che trascorre le giornate bighellonando per la città, mentre di notte lavora come tassista guidando per New York. L’estraniazione nei confronti della realtà contingente instilla nella sua personalità deviata il desiderio di ripulire la città da per salvare una ragazza, Cybill Shepherd, l’angelo che dovrebbe trascinarlo fuori dall’inferno ma che non potrà farlo: «Guadagno trecento, trecentocinquanta alla settimana, certe volte anche di più, quando faccio senza tassametro. Vengono fuori gli animali più strani, la notte: puttane, sfruttatori, mendicanti, drogati, spacciatori di droga, ladri, scippatori. Un giorno o l’altro verrà un altro diluvio universale e ripulirà le strade una volta per sempre».
Un’incessante ricerca del capro espiatorio, unita al cocente odio per i politici e la casta – altro tema incredibilmente attuale – fanno di Travis l’uomo contemporaneo, attanagliato da entità superiori e imbrigliato nel nulla di una città che lo fagocita come un granello di sabbia all’interno di un enorme ingranaggio. Inizierà un lungo percorso di deterioramento psichico, il cui emblema è il monologo allo specchio con Travis che imbraccia la pistola rivolgendosi alla propria immagine riflessa, monologo poi ripreso da Spike Lee ne La 25a ora. «Ma dici a me? Ma dici a me? Ehi con chi stai parlando? Dici a me?». Agli Oscar quella sera di marzo fu Peter Finch (per Quinto potere) a sconfiggere De Niro come attore e l’Oscar come miglior film quell’anno se lo portò a casa Rocky con il pugile Stallone ad alzare le braccia al cielo a coronamento di un viaggio produttivo incredibile. Non fu un caso: in fondo la sua era (ed è) una favola americana decisamente più rassicurante dell’abisso di Taxi Driver…
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