ROMA – Quando un film riesce a raccontare il presente restiamo folgorati, ma quando addirittura l’anticipa, beh, allora siamo davanti ad un’opera d’arte profetica e magica. Perché, mai come ora, siamo in un tempo tortuoso e burrascoso che, obbligatoriamente, ci spinge a vivere un giorno alla volta. E, questo cammino oscuro, fatto di speranze incrinate e recondite paure, è appropriato per un film ricco di osservazioni sulle svolte imprevedibili della vita. Così, Soul di Pete Docter, il 23° lungometraggio Disney Pixar (presentato alla Festa del Cinema di Roma 2020 e su CHILI dal 23 marzo), è già storico per due motivi. Per la prima volta lo studios mette al centro del film un protagonista afroamericano, Joe, e soprattutto (ri)elabora il tema più ancestrale dell’universo: la morte.
È vero, direte voi, la Pixar, l’argomento, lo aveva già fatto intravedere (molto bene) in Coco, ma questa volta il “valore” della morte è particolarmente rappresentativo. Infatti, Docter, che ormai ha preso il posto dell’ex John Lasseter, sia per influenza che per immaginazione, conosce talmente bene lo studio che non sbaglia un verso né un suono del film, rimodellando melodie ed emozioni in un profondo sguardo esistenziale, tra il sogno, la vita e la disconnessione emotiva. Melodie, in questo caso, Jazz. Il genere per eccellenza, quello più potente e prodigioso, l’essenza della musica in una sinuosità arrabbiata e impetuosa. Per questo, la storia di Joe Gardner, insegnate di musica con il desiderio di suonare in un club di New York, è modellata sulla colonna sonora di tre geni come Trent Reznor, Atticus Ross e Jon Batiste, che miscelano una combinazione vertiginosa di identità musicali capaci di sottolineare la stratificazione del film.
Joe, col cappello calato sugli occhi e dalle troppe occasioni perse, come Mercer Ellington (figlio di Duke) non è mai riuscito a emergere dall’ombra del suo defunto padre, eccezionale pianista. Joe Gardner, come noi, come tutti, vive nell’instabilità e nella precarietà. Ci è abituato e, da una parte, lo aiuta a tenere vivo il desiderio di diventare un jazzista affermato. Poi, il bivio: serve un pianista per suonare con la famosa Dorothea Williams, e forse per Joe è arrivato il momento di brillare, di emergere. L’audizione va alla grande, la rivalsa sembra ormai avviata, e il suo free jazz, la forma d’arte che i leggendari musicisti neri usavano per sfidare le regole convenzionali stabilite dai bianchi, è eccezionale.
Ma proprio quando Docter sembra pronto a seguire la rivincita personale del protagonista, lo scenario di Soul assume una nuova forma, anche drammatica. Infatti, Joe, in estasi, dopo l’audizione cade in un tombino di Chelsea, a Manhattan. Il film, allora, come un assolo di John Coltrane, prende una piega psichedelica, lo sfondo cambia, New York sparisce e, con l’anima di Joe (!), ci ritroviamo in un etereo sottosopra, dove alle anime viene insegnata la vita in tutti i suoi aspetti, nutrite di personalità e scintille, grazie a speciali mentori, prima di arrivare sulla Terra. E sì, l’avrete capito dalla trama (scritta da Docter, da Mike Jones e dal drammaturgo Kemp Powers), l’ambizione e l’ascensione di Soul è di assoluto spessore.
Perché, se è vero che Coco e Up avevano calcato il territorio, qui la Pixar da una svolta narrativa alla morte, pur non avendo l’arroganza di spiegarla. Joe potrebbe aver perso la vita dopo la caduta, ma non è ancora pronto a lasciare che il destino (anzi, la morte stessa) abbia l’ultima parola. In qualche modo, riesce a diventare la prima anima a sfuggire al trapasso, finendo in un mondo sfocato dove incontra l’irriverente 22, un’anima che di salire in superficie non ci pensa proprio, nonostante abbia avuto in passato mentori come Muhammad Ali o Carl Jung. Il loro incontro, proprio come un’armonia di suoni diversi, da il via alla parte più divertente di Soul. Quella delle gag, dell’innovazione visiva e dei buoni sentimenti alla Frank Capra: Joe, che vuole tornare sulla Terra, 22, determinata a non andarsene mai dall’aldilà.
A tal fine, tra gatti musicisti e la subway di New York (e non è un caso che sia proprio La Grande Mela a far da cornice al film, con la sua infinità, il rumore e le sue contaminazioni), Soul riesce a destreggiarsi tra l’umorismo surreale e la narrativa più radicata e intima, che tende, in pieno stile Pixar, all’enfatizzazione emozionale di un argomento così delicato, sociale e antropologico. Eppure, nonostante la sceneggiatura estrosa, il trasporto empatico e il sorprendente richiamo a La Vita è Meravigliosa, Soul mantiene una lucidità narrativa che poche volte avevamo notato in un film d’animazione, alzando l’asta della qualità a livelli quasi mai toccati prima. E accendendo un’altra lucente stella nel firmamento cinematografico di questo incredibile studio, utilizzando un quadro narrativo che vira in molte direzioni, inaspettate e meravigliose. Attimo dopo attimo, proprio come una grande composizione jazz.
- Volete vedere Soul? Lo trovate su CHILI
Qui il trailer originale di Soul:
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