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Pete Davidson, Staten Island e quei tormenti a vent’anni dall’11 Settembre

Nel film di Apatow si racconta la storia (vera) di un ragazzo annichilito dalla perdità del papà pompiere

Pete Davidson
Pete Davidson

ROMA – Cos’è rimasto da dire o da pensare o da scrivere, vent’anni dopo? Cos’è rimasto di quel giorno di settembre, quando l’isola di Manhattan divenne il centro di un nuovo mondo dominato dall’incertezza e dalla paura? È rimasta un’ottusa guerra persa, è rimasta la ferita che, ogni tanto, ancora brucia. Ma nel fondo del pozzo è rimasto qualcosa che non poteva di certo essere spezzato, né portato via. Perché oggi più che mai, dopo due decenni stracolmi di cambiamenti, è preponderante la certezza che no, la speranza non può essere cancellata; che New York non può essere fermata, e che nessun incubo può resistere alla perseveranza di un piccolo albero, rimasto in piedi in mezzo al fuoco. Perché anche dove c’è morte e dramma, può tornare la vita. È inutile soffermarci sulla retorica: per quest’anno è meglio raccontare quanto la generazione post 9/11 sia abituata a navigare a vista; quanto sia consapevole che per far avverare un sogno bisogna lottare forte, mollando quel tempore avvilente che ti spinge a restare fermo, che tanto la vita fa schifo e non c’è rimedio.

Pete Davidson e Steve Buscemi in Il Re di Staten Island
Pete Davidson e Steve Buscemi in Il Re di Staten Island

E se il cinema puntualmente riflette l’umore della società (ma il 9/11 sul grande schermo è sempre stato materiale complicato), non è un caso che la storia di Pete Davidson – membro del Saturday Night Live – sia diventata un film, Il Re di Staten Island, datato 2020 e diretto da Judd Apatow. Pete è un personaggio complesso, basa i suoi sketch sulla vita vissuta, infarcendola di una comicità eccessiva e spudorata. Ma, sotto, Pete ha sempre covato un disagio, perseguitato dalle ombre della memoria che, drammaticamente, lo riportano a quando aveva sette anni: le sirene, il fumo sui grattacieli di Battery Park, la CNN che gracchiava di un attentano, la consapevolezza di avere papà Scott nella FDNY, e che quel maledetto giorno ogni pompiere della città aveva la missione di correre al World Trade Center, provando a salvare più vite possibili sfidando a mani nude l’inferno sceso in terra. Scott faceva il firefighter dal 1994, per lui era “Il più grande lavoro d’America”, e prestava servizio al FDNY Engine 205/Ladder 118 di Brooklyn Heights.

Tra i caduti del Ladder 118 anche Scott Davidson. Photo by NY Daily News Archive via Getty Images
Tra i caduti del Ladder 118 anche Scott Davidson. Photo by NY Daily News Archive via Getty Images

L’ultima volta che Scott è stato visto in quello che era già diventato il Ground Zero, fu sulle scale del Marriot World Trade Center, usato dai pompieri come zona cuscinetto, poco prima che crollasse sotto l’implosione della Torre Sud. Sarà banale, sarà ridondante, ma Scott, come tutti quelli che persero la vita il 9/11, è un eroe; ha sacrificato tutto per combattere il male. Non c’era tempo per pensare, non c’era tempo per riflettere che quelli sarebbero stati i suoi ultimi attimi, e che il figlio Pete da allora avrebbe avuto a che fare con una mancanza che lo avrebbe spinto, negli anni, a gestire il tormento di pensieri suicidi, dovendo poi dosare una personalità borderline. La sua storia, romanzata e rivista, è poi stata messa in scena da Apatow in Il Re di Staten Island, dove Davidson diventa (il nome non è un caso) Scott Carlin che, arrivato a ventiquattro anni, passa le sue giornate a fumare marijuana e tentare – con scarsi risultati – di fare il tatuatore. Il suo universo è quello circoscritto di Staten Island, tra i grocery e il parchetto dietro casa, mentre prova giorno dopo giorno ad ingoiare la depressione causata dalla morte del padre pompiere avvenuta quando era bambino. La storia di Davidson è romanzata e l’accenno all’11 Settembre è solo sottinteso, ma il film di Apatow spiega bene le paure, le incongruenze e l’immobilismo di Pete.

Pete Davidson e papà Scott
Pete Davidson e papà Scott

Troppo forte il dolore, troppo assurda la perdita personale in uno degli eventi collettivi che hanno cambiato il corso della storia. Pete/Scott sono il manifesto di quanto nel 9/11 sia stata spezzata la leggerezza dell’essere e sia stata annientata la fiducia nel futuro riposta da un paio di generazioni, brutalmente svegliate da quelle immagini strazianti e mai del tutto assorbite che, puntualmente, tornano e torneranno ancora. Via via, però, il dolore viene addomesticato, ci si fa in qualche modo la pace, e lo si accetta per quello che è: dolore e memoria impressa su di un monumento che ne raccoglie l’essenza e la solennità all’ombra di una torre che sfiora il cielo. New York City da quella limpida mattina di metà settembre è cambiata ma, di certo, non è stata sconfitta. Incredibilmente resistenti i suoi splendidi cittadini, coraggiosa e nobile nel sapere metabolizzare il lutto rispettando il ricordo, tanto che in vent’anni sono pochissimi i film dedicati al 9/11. Del resto nemmeno il cinema, questa volta, può novellizzare le emozioni e dunque, la storia collaterale di Pete Davidson, diventa l’esempio migliore per illuminare meglio quelle ingombranti macerie, finite per diventare un tatuaggio sul braccio con il numero del distintivo di papà Scott, 8418.

E qui la nostra intervista a Pete Davidson e Judd Apatow:

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