MILANO – Ruota tutto attorno a una canzone, girano due vite e una morte sulle note di un ritornello sparato a tutto volume: la canzone è One Headlight dei Wallflowers di Jakob Dylan, le due esistenze parallele sono invece quelle di Pete Davidson e del suo personaggio, Scott Carlin, ne Il Re di Staten Island. La morte è la stessa, quella di un padre, pompiere mai più tornato dall’11 settembre ed è una scomparsa reale: il padre di Pete si chiamava Scott Matthew Davidson, trovate oggi il suo nome nella Roll of Honor dei pompieri, tra gloria e rimpianti. E Il Re di Staten Island – uscito male durante il COVID, ora su Prime Video e AppleTV+ – nasce proprio da qui, da un vuoto incolmabile e da quella canzone, appunto, One Headlight, che nel film si ascolta verso la fine durante la festa nella caserma e che era (davvero) la canzone preferita di Pete e papà Scott che la ascoltavano in macchina tornando a casa. Quando tutto sembrava eterno.
E dentro il film, nell’ennesimo anniversario dell’11 settembre, fa tutto male, fa male per davvero, perché il film di Apatow picchia duro e si avvicina per senso e dolore anche ad un’altra canzone, questa volta del Bruce Springsteen di The Rising, una riflessione su chi resta dopo il 9/11. Il film sembra davvero You’re Missing in certi passaggi («Everything is everything but you’re missing»), perché parla di chi deve andare nonostante tutto e di chi non torna più, parla di un buco che non si richiuderà mai, di armadi mai riaperti, di domande rimaste senza risposta e di giacche che non verranno mai più indossate. O forse sì. Una sorpresa, un film dolente e amaro, ma anche ironico e vitale, senza dubbio una delle cose più belle viste negli ultimi anni, un’opera edificata interamente su Pete Davidson, magnifico cialtrone senza bussola, incapace di dare un senso a tutto, incapace di vivere tra adulti, ma tra i bambini sì.
Ma non solo: Il Re di Staten Island non è unicamente Davidson, perché minuto dopo minuto diventa una dolente lettera d’amore spedita a tutti i losers dell’American Dream, a quelli che hanno dovuto abbassare la testa e andare avanti, a quelli che non hanno potuto nemmeno salutare, alle mogli come Marisa Tomei (sempre magnifica, stropicciata) che deve fingere che tutto vada bene, alle sorelle come Maude Apatow, agli amici squinternati che devono andare avanti senza sapere come, ai pompieri come Bill Burr e Steve Buscemi (bellissima la scena davanti alla partita di baseball) che devono ancora dare un senso a un dramma enorme come quello del 9/11, anche ventitrè annidopo, un’ombra che li accompagna costantemente, ogni giorno.
«Your house is waiting for you to walk in, but you’re missing», cantava Springsteen e qui Apatow costruisce lo script proprio su quella casa che attende un ritorno e sul percorso che Davidson – attore e persona – fa (e ha fatto) per arrivare a rendersi conto che il padre non tornerà. Mai più. Non ci sarà un lieto fine, nessuno arriverà a salvarlo, non ci sarà più One Headlight in macchina a tutto volume e nemmeno la voce di papà che canta. Ci sarà solo un differente modo di sopravvivere, un percorso scavato a modo suo, tra tatuaggi, canzoni di Kid Cudi e un amore piccolo che poi improvvisamente si ritrova grande (Bel Powley, vista poi in Masters of the Air). Esattamente come Il Re di Staten Island: un piccolo film che poi diventa improvvisamente grande. Un consiglio: non perdetelo, recuperatelo e consigliatelo.
- OPINIONI | Perché riscoprire La 25esima ora di Spike Lee.
Qui la nostra intervista a Pete Davidson e Judd Apatow:
Lascia un Commento