«In molte interviste mi è stato chiesto perché ho deciso di girare un film con Woody Allen la scorsa estate. Non posso rispondere perché ci sono degli obblighi contrattuali, ma quello che posso dire è che non voglio avere alcun guadagno dal film e donerò quello che ho guadagnato a tre enti: Time’s Up, il centro LGBT Centre di New York e il Rainn, (il Rape, Abuse & Incest National Network, nda)». Così, senza troppi giri di parole, ha scritto Timothée Chalamet sul suo profilo Instagram, diventando solo l’ultimo di una lunga serie di attori e attrici che hanno deciso di attaccare direttamente Allen per le accuse di molestie sessuali nei confronti della figlia Dylan, accusa che il regista ha sempre respinto al mittente. Qualche giorno fa era stata Rebecca Hall, che con Allen aveva già lavorato in Vicky Cristina Barcelona nonché compagna di set di Chalamet sul prossimo film A Rainy Day in New York, ad affermare – sempre via Instagram – che non avrebbe mai più lavorato con Allen.
Prima di Chalamet e della Hall, era stata Mira Sorvino – che con Allen ha vinto un Oscar per La dea dell’amore – ad attaccare pubblicamente il regista: «Confesso che all’epoca in cui lavorai con lui ero giovane e ingenua. Oggi sono terribilmente addolorata per Dylan (Farrow, nda) e non riesco a immaginare come si sia sentita in tutti questi anni. Ma come mai Harvey Weinstein e altre celebrità sono state buttate fuori da Hollywood, mentre Allen si è anche assicurato un accordo di distribuzione con Amazon?». Un attacco frontale e pesantissimo, seguito poi da quello di Greta Gerwig – che con Allen girò To Rome With Love proprio in Italia – che in un’intervista ha spiegato che se avesse saputo delle accuse della figlia non avrebbe mai girato quel film.
Insomma, l’onda lunga dello scandalo Weinstein non accenna a fermarsi, tra nuove accuse a Aziz Ansari (accusato da una donna di «sesso non consenziente»), lettere più o meno opportune di Catherine Deneuve e moniti come quello di Liam Neeson che, in un’intervista alla televisione irlandese, ha detto di temere la sindrome della «witch hunt», ovvero della caccia alle streghe in un movimento che sembra inarrestabile ed è destinato a durare ancora a lungo. «Bisogna distinguere tra le varie accuse», ha riflettuto Neeson, «per esempio quelle contro Dustin Hoffman non mi sono sembrate del tutto giuste, quelle non erano molestie». L’ennesimo capitolo si chiude qui. In attesa di quello nuovo…
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