ROMA – Elizabeth Berry, una famosa attrice, è intenzionata a realizzare un film sulla storia vera di una coppia, Gracie Atherton-Yoo e Joe Yoo la cui relazione clandestina aveva infiammato la stampa scandalistica e sconvolto gli Stati Uniti vent’anni prima. Per prepararsi al suo nuovo ruolo, entrerà nella loro vita rischiando di metterla in crisi. Parte da qui May December, il nuovo film di Todd Haynes con protagonisti Natalie Portman, Julianne Moore e Charles Melton, presentato in concorso a Cannes 76, candidato agli Oscar 2024 nella categoria Miglior sceneggiatura originale e al cinema con Lucky Red a partire dal 21 marzo. Un racconto tra il melò e il thriller psicologico, liberamente ispirato ad una storia realmente accaduta alla metà degli anni Novanta: la relazione licenziosa tra Mary Kay Letourneau e Vili Fualaau.

Lei, all’epoca trentenne, era l’insegnante di lui, dodicenne, alle medie. Nel 1997 la Letourneau fu arrestata e accusata di stupro di secondo grado di un minore. Nonostante tutto, però, rimasero insieme, si sposarono ed ebbero due figlie. Il loro matrimonio durò per ben quattordici anni, dal 2005 al 2019, anno di morte di lei per cancro. Solo a quel punto Fualaau, elaborato il lutto e l’intera esperienza, ammise a mezzo stampa – e a sé stesso – che la relazione fu violenta e malsana fin dall’inizio. Questo è uno dei nodi cardine su cui ruota lo script di Samy Burch. Un soggetto che ha da subito travolto l’executive Jessica Elbaum prima, e la stessa Portman poi, che vide in Haynes la perfetta mano registica con cui dar forma per immagini a May December.

E accettò al volo, infatti, proponendo la Moore – qui alla quinta collaborazione con Haynes dopo Safe, Lontano dal paradiso, Io non sono qui e La stanza delle meraviglie – nel complesso ruolo di Gracie. Una non protagonista, quasi deuteragonista, dal minutaggio inferiore se rapportato a quello della Elizabeth della Portman – che di May December e le sue dinamiche strutturali è il motore narrativo –, eppure ingombrante e onnipresente nei suoi giochi di potere e nei traumi innescati, ammorbiditi e infiammati. Un agente scenico tratteggiato con grazia dalla Moore, in bilico tra (finta) ingenuità, manipolazione e terrificanti stoccate passivo-aggressive verso vicini e amati. In particolare verso Joe (un grande Melton), privato di prime volte ed esperienze formative, affettuoso e di forte istinto paterno, ma incompiuto e dall’emotività fanciullesca, costretto a essere spettatore della sua stessa vita.

Infine la Elizabeth portata in scena da una Portman in assoluto stato di grazia – ricercatrice e trasformista, sempre intensa – su cui Haynes incide un May December saggio di costruzione caratteriale intriso di meta-linguaggi, a doppio livello, fatto crescere in un terreno narrativo impervio come l’imperfetta linea di confine tra reale e irreale, e giocato tutto di volatilità, impenetrabilità e ambiguità morale. Un’opera con cui indagare il dolore deducendolo – scena dopo scena – dalle cicatrici sulla pelle dei suoi protagonisti, raccontando di illusioni e solitudini ricercate, silenzi, simbiosi e spazi vuoti, e di individui che rifiutano di guardare dentro sé stessi perché incapaci perfino di accettare l’abisso che alberga nel loro animo. Un film di Todd Haynes insomma, o per dirla in altre parole: un grande film.
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