ROMA – Hirayama (Kôji Yakusho) conduce una vita semplice, scandita da una routine perfetta. Si dedica con cura e passione a tutte le attività della giornata, dal lavoro come addetto alle pulizie dei bagni pubblici di Tokyo all’amore per la musica, ai libri, alle piante, alla fotografia e a tutte le piccole cose a cui si può dedicare un sorriso. Nel ripetersi del quotidiano, una serie di incontri inaspettati rivela gradualmente qualcosa in più del suo passato. Parte da qui Perfect Days, il nuovo film di Wim Wenders presentato in concorso a Cannes – dove la performance di Yakusho è stata insignita della Palma come miglior attore – e in arrivo nei cinema italiani a partire dal 4 gennaio con Lucky Red. Una pellicola nata per puro volere del caso.
Precisamente da una lettera ricevuta da Wenders all’indomani della pandemia in cui fu invitato a Tokyo da Koji Yanai per osservare il Tokyo Toilet Project, un progetto in cui alcuni bagni pubblici erano stati ridisegnati in diciassette località del quartiere di Shibuya e che Wenders avrebbe dovuto pubblicizzare attraverso una serie di cortometraggi: «L’argomento di Perfect Days avrebbe riguardato i bagni pubblici e la speranza era di trovare un personaggio attraverso il quale si potesse comprendere l’essenza della cultura giapponese dell’accoglienza, in cui i bagni giocano un ruolo completamente diverso rispetto alla nostra visione occidentale di semplici servizi igienico-sanitari. In Giappone sono piccoli santuari di pace e dignità. Mi sono piaciute le foto che ho visto di quelle meraviglie architettoniche. Somigliavano più a dei templi che a dei gabinetti…».
Quattro per l’esattezza, della durata di 15-20 minuti. La visione di quel posto, unita alla fattezze del personaggio di Hirayama, ha spinto infine Wenders a renderli parte di un contesto romanzato assieme al co-sceneggiatore Takuma Takashi: «Ho sempre la sensazione che i luoghi siano protetti meglio nelle storie che in un contesto non romanzato. Ma non mi piaceva l’idea di una serie di cortometraggi. Quei bagni erano troppo belli per essere veri, ma non era di loro che avrebbe parlato Perfect Days. Questo avrebbe potuto diventare un film solo se fossimo riusciti a dar vita a un addetto alle pulizie unico, un personaggio realmente credibile e reale. Solo la sua storia avrebbe avuto importanza, e solo se fosse valsa la pena guardare la sua vita, avrebbe potuto portare avanti il film».
Un’opportunità di racconto colorita, quasi surreale, che Wenders ha saputo cogliere al volo realizzando una pellicola profondamente personale e per una ragione ben specifica: «Abbiamo girato Perfect Days a Tokyo sessant’anni dopo che Yasujirō Ozu ha realizzato (a Tokyo nda) il suo ultimo film (Il gusto del sakè) nel 1962. Non è una coincidenza se il nome del nostro protagonista sia Hirayama come molti dei protagonisti del cinema di Ozu». Un cinema che per il regista tedesco ha rappresentato i natali cinematografici, la propria formazione d’autore, e su cui si espresse così nel voice-over in apertura di racconto di Tokyo-Ga, documentario da lui realizzato nel 1985: «Se nel nostro secolo ci fossero ancora cose sacre, se esistesse qualcosa come il sacro tesoro del cinema, per me questa sarebbe l’opera di Yasujirō Ozu».
Attraverso Ozu, Wenders scoprì il Giappone e con esso i cambiamenti socio-culturali che lo hanno attraversato nelle decadi: «Allora avevo sempre visto gli Stati Uniti come il luogo dove trovare il futuro. Qui in Giappone ho trovato un’altra versione del futuro, che mi si adattava davvero bene. Ho conosciuto il Giappone attraverso i film di Ozu che ci offre un resoconto del drastico cambiamento della cultura giapponese dagli anni Venti sino all’inizio degli anni Sessanta, quando lui morì». Ma soprattutto, Ozu fece capire a Wenders l’unicità dei momenti della vita di ogni giorno: «La sensazione che permea i suoi film è che ogni cosa e ogni persona sono uniche, che ogni momento accade una volta sola, che quelle di tutti i giorni sono le uniche storie eterne».
In questo contesto cresce la narrazione di Perfect Days presentataci da Wenders in un rigoroso 4:3 di formato d’immagine in cui incasellare piccoli momenti di vita quotidiana dalla regia intima che raccontano di una vita solitaria ma felice, appagante, fatta di una routine consolidata e meticolosa che è testimonianza dell’uomo-Himayama, del suo equilibrio vitale e di come è stato capace di trovare il proprio posto nel mondo. E quindi l’attenzione con cui si prende cura delle proprie piante e dei bagni pubblici a lui assegnati, il solito caffè in lattina al distributore, il solito panino a pranzo sotto il suo albero-amico da lui fotografato ogni giorno nella continua ricerca di giochi di luce inediti e ombre riflesse, i pasti consumati in locali di fiducia dove è ormai di casa per i gestori.
Nel suo parlare unicamente per azioni – e in questo lo script di Perfect Days è efficace in quanto dotato, specie nei primi due atti, di una componente dialogica scarna seppur incisiva – Wenders ci presenta un Himayama silenzioso, premuroso, attento e rituale, meticoloso – equamente diviso tra il compimento del proprio dovere di addetto alle pulizie dei sanitari e il perseguimento delle proprie passioni – da cui lascia trapelare a ogni passo narrativo compiuto il peso della vita addosso, delle scelte fatte, e di un passato nebuloso. Un’entità astratta, senza tempo e fuori dal tempo. Un analogico in un mondo radicalmente digitale capace di emozionarsi ancora per una frase contenuta in libro e per un fiore sbocciato, e che alla libreria di Spotify e l’immediatezza di Shazam preferisce la ricerca, la scoperta e i ricordi delle musicassette.
E che musica aggiungiamo noi! Perché Wenders – che da sempre usa la musica come un personaggio – sembra essersi superato nelle scelte musicali, regalandoci con Perfect Days una colonna sonora da sogno realizzando una compilation d’ineguagliabile bellezza: House of the Rising Sun degli Animals, Sunny Afternoon dei Kinks, Brown Eyed Girl di Van Morrison, Sittin’ On The Dock of the Bay di Otis Redding, Perfect Day di Lou Reed, Feeling Good di Nina Simone (a cui affida, peraltro, il momento più emozionale del racconto), Redondo Beach di Patti Smith e Pale Blue Eyes dei Velvet Underground. Brani esercitati esclusivamente in forma diegetica che vanno a scandire il proseguo temporale del racconto dotandolo di una ciclicità rituale dal montaggio sempre più netto e compiuto. In esso Himayama nasce, cresce, muore aprendosi al mondo e riscoprendo sé stesso, per poi rinascere in un’epifania narrativa oltre che vitale.
Nell’andamento dei giorni infatti, Himayama vede la propria routine vacillare tra l’imprevedibile e inaffidabile-ma-vitale collega Takashi (Tonio Emoto), l’amorevole nipotina Niko (Arisa Nakano) e la ristoratrice Mama (Sayuri Ishikawa). Variabili impazzite attraverso cui comprendere meglio il proprio posto e la portata delle proprie azioni tra passato e presente («Un’altra volta è un’altra volta, mentre adesso è adesso») e un futuro che appare di rinnovata e commossa serenità. Cucito addosso al suo straordinario arco narrativo, Wenders intesse un racconto poetico e ispirato, giocato tutto su sospiri, silenzi e detti/non-detti, sull’unicità della vita, sulla ricerca dell’intima e pura bellezza nelle piccole cose di ogni giorno, sull’importanza del proprio equilibrio e sull’imprevedibilità del caso come unico agente in grado di scuoterne le fondamenta, anche con un solo evento apparentemente impercettibile.
In questa direzione, il viaggio nel quotidiano di Himayama tra le maglie narrative di Perfect Days sembra regalare allo spettatore un’importante riflessione di portata universale sul senso della vita. Tuffarsi nel mondo può essere difficile, sgomitare per trovarvi il proprio posto sino a mantenerlo, in equilibrio (ora agitato, ora sereno), perfino di più. Himayama sembra infatti soffrirne in certi momenti, manifestando irrequietezza quando la sua routine viene sconvolta da minuscoli eventi. Poi però arriva la svolta e con essa l’accettazione in un climax da antologia che ne riequilibra i moti interiori, da cui deriva una preziosa lezione: per quanto la vita possa fare paura, a volte perdersi è l’unico modo possibile per ritrovarsi…
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Qui sotto potete vedere una clip del film
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