PARIGI – Qui in redazione a Hot Corn la amiamo da sempre, da quando nel 2017 grazie a Kenzo scoprimmo il suo talento con il cortometraggio Olympus, in cui recitava anche suo fratello Gard. Poi la ritrovammo a Cannes nel 2019 con il primo film, Atlantique, che vinse il Grand Prix Speciale della Giuria e che trovate su MUBI. Oggi Mati Diop, parigina di origini senegalesi classe 1982, ritorna a casa con l’Orso d’oro per il secondo film, Dahomey, documentario totalmente politico (anche se apparentemente non lo è) in cui racconta dei tesori reali del Regno del Dahomey – un ex regno africano situato al Sud della Repubblica del Benin – che da Parigi ritornano nel loro Paese d’origine. Una storia impossibile? Sì. Insieme a migliaia di altri manufatti, quei tesori furono infatti saccheggiati dalle truppe francesi nel lontano 1892. Una vicenda incredibile che arriva ora al cinema e che Mati Diop – che ricevendo il premio ha citato e ricordato le lotte del suo popolo, in Senegal, e della Palestina – racconta qui, dalla genesi alle riprese.
DOPO ATLANTIQUE – «A Parigi sono cresciuta tanto nel mainstream quanto nella controcultura. Da questo punto di vista, Atlantique trasponeva la varietà delle mie influenze culturali e con quel film ho cercato di rimanere il più vicino possibile al mio linguaggio artistico giocando con una narrazione più classica. Con Dahomey le cose sono decisamente cambiate: sono ritornata ad un processo di scrittura e di ripresa più libero e vicino alle mie opere precedenti. La pandemia mi ha messo in scacco, mi ha fatto dubitare del significato che volevo continuare a dare al mio lavoro di regista e dell’impatto politico che poteva avere. Così, mentre riflettevo sul lungometraggio al quale avrei voluto dedicare i prossimi anni della mia vita, ho continuato a lavorare su una varietà di formati e registri filmici. Un anno dopo, quando ho saputo che i tesori del Dahomey sarebbero stati restituiti al Benin dalla Francia, ho interrotto quello che stavo facendo e ho deciso di costruirci sopra un film…».
L’AFRICA E LA RESTITUZIONE – «Quando ho sentito per la prima volta il termine Restituzione, nel 2017, stavo ancora scrivendo Atlantique. Da regista afrodiscendente, la parola ha risuonato profondamente dentro di me, non posso negare che quella questione attraversi il mio lavoro. Inoltre, i film che ho realizzato a Dakar tra il 2009 e il 2019 parlano di un processo di ritorno, un ritorno alle origini africane, ad una parte di me che è stata sepolta per troppo tempo sotto l’egemonia dell’ambiente occidentale. In aggiunta a ciò, c’era l’eco inquietante tra la figura del revenant in Atlantique che stavo finendo di scrivere e il ritorno dei manufatti africani alla loro terra natale. Restituzione, Vendetta, Ritorno e Riparazione si unirono nella mia testa. Per quanto sconcertante possa essere stato per me l’annuncio di Emmanuel Macron a Ouagadougou, il progetto di rimpatrio del patrimonio culturale africano è stato uno shock perché mi sono resa conto – con tristezza – che non avrei mai immaginato la possibilità che qualcosa del genere accadesse, forse per rassegnazione. Non avevo mai immaginato come potesse essere realmente la restituzione e, mentre cercavo di visualizzarla, un film si stava già creando nella mia mente».
LA LAVORAZIONE DEL FILM – «Inizialmente immaginavo di scrivere Dahomey come un lungometraggio che raccontasse l’epica di un artefatto, dal saccheggio alla fine del XIX secolo al ritorno a casa nel 2075. Doveva anticipare il futuro, perché mi sembrava improbabile che qualsiasi restituzione fosse imminente o che saremmo stati vivi per assistere a un capitolo così storico. Nonostante ciò, avevo informato i miei produttori, Judith Lou Levy e Eve Robin, che se fosse avvenuto il rimpatrio dei reperti (dalla Francia al loro Paese), avrei assolutamente voluto filmarlo, quindi dovevamo stare in allerta. Abbiamo tenuto d’occhio la stampa fino a quando non è arrivato l’annuncio che ventisei tesori reali erano stati selezionati per la restituzione. La data? Il 10 novembre 2021. È stata una corsa contro il tempo: chiedere il permesso del Governo del Benin per scortare i tesori – il governo è diventato partner del film garantendoci l’indipendenza su cui insistevamo – e allo stesso tempo organizzare la logistica delle riprese da Parigi a Cotonou, dove non ero mai stato prima. Poco dopo aver iniziato a lavorare al film, ho deciso di creare una società di produzione con sede a Dakar (Fanta Sy) per co-produrlo con Les Films du Bal».
DAHOMEY E LA FORMA – «Ciò che distingue il documentario dalla finzione riguarda la questione del processo di scrittura. Oltre all’esigenza che sentivo di realizzare questo film, dopo Atlantique avevo bisogno di rivivere un processo di scrittura e di ripresa libero rispetto a un’opera di finzione. Mi piace liberarmi dalle convenzioni sul formato e mi piace l’idea di reinventare il mio approccio alla scrittura con ogni film. Ho visualizzato Atlantique come un racconto gotico. Dahomey è un documentario fantasy. Nei documentari la scrittura è innanzitutto un punto di vista, su persone o su una situazione. La scrittura inizia con il linguaggio che traduce (o tradisce) il tuo rapporto con il mondo, con le altre persone e con te stesso. Alla fine, quando guardi un film, che sia un documentario o una fiction, l’unica domanda è se il cinema esiste oppure no. Quando sono arrivato al Museo Quai Branly con Joséphine Drouin Viallard, la direttrice della fotografia, per il primo giorno di riprese, quando i manufatti dovevano essere rimossi dall’esposizione e imballati, non sapevamo cosa aspettarci ed eravamo molto preoccupati per il contesto del museo. In Anche le statue muoiono di Alain Resnais e Chris Marker del 1953, uno dei pochi film che avevo in mente come riferimento, le inquadrature delle statue rasentano il sublime. È – allo stesso tempo – un manifesto politico e un film d’arte. Puntavo allo stesso rigore estetico ma, in un documentario, non puoi controllare tutto ciò che ti circonda».
STORIA, MITO, IMMAGINE – «La dimensione storica del momento aveva una dimensione mitica che volevo portare dentro Dahomey con i movimenti della cinepresa, per far emergere il peso, la densità e la consistenza di ciò che stava accadendo. Spesso la realtà produce immagini molto più sorprendenti di qualsiasi cosa generi la finzione. Sono rimasta stupita dal processo altamente tecnico della restituzione: sembrava una cerimonia funebre, con un ritmo stabilito dall’imballaggio di ogni manufatto al suono di trapani e colpi di cantiere. L’atmosfera era solenne, sentivi ogni secondo che passava. La storia stava cambiando direzione; qualcosa si stava invertendo. A volte le persone si trasformano in personaggi mitologici o archetipi che devono essere riconosciuti e sublimati. È il caso di Calixte Biah, la curatrice chiamata dal governo del Benin per trasportare i tesori da Quai Branly a Cotonou. Prima di avere l’idea di far parlare gli artefatti, volevo rendere il più udibile possibile il loro silenzio, che abbiamo ricreato nel montaggio del suono e nel mixaggio con Nicolas Becker e Cyril Holtz. Mi è sembrato il modo più eloquente per restaurare il loro potere evocandone gli aspetti segreti, opachi e inviolabili. La sequenza in cui gli artefatti vengono installati nello spazio espositivo del palazzo è stata messa a punto e riscritta nella suite di montaggio».
IL DIBATTITO – «La restituzione dei manufatti culturali africani saccheggiati durante il periodo coloniale francese riguarda innanzitutto i giovani africani, le cui voci non erano ancora state ascoltate sull’argomento ma sono state invece dirottate negli ambienti politici o recluse in ambito accademico. Era necessario spostare l’intera questione dal vertice alla base, creare uno spazio che permettesse ai giovani di identificare la restituzione come parte della storia. Per Dahomey ho così immaginato un grande dibattito in un’università, come una sessione di brainstorming, per considerare tutte le domande che questa restituzione solleva e, soprattutto, rivela. Volevo che il dibattito ruotasse intorno ai temi della storia, delle vestigia e della memoria. Per me la sfida è stata trovare il modo di creare uno spazio di libera espressione su un argomento che appartiene ai protagonisti. Il giorno delle riprese ho scelto di trasmettere il dibattito alla radio del campus per generare più tensione e urgenza tra i relatori, che sapevano che stava ascoltando un pubblico più vasto. Indipendentemente dalle riprese, era legittimo che il dibattito venisse trasmesso e condiviso tra quante più persone possibile…».
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