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TOP CORN | Violenza o capitalismo? L’eterno orrore di Non Aprite Quella Porta

Lo slasher di Tobe Hooper, il 18 agosto 1973, Leatherface e i simboli di una società malata

Una rivisitazione grafica del poster originale di Non aprite quella porta.

ROMA – Un film miliare, rimasto, rivisto, ripensato. Uscito nel 1974 e girato da Tobe Hooper con un budget ridicolo – finendo per incassare, considerando l’inflazione dell’epoca, oltre 30 milioni di dollari sono negli States –, in ottanta, massacranti minuti rivede il discorso iniziato da Hitchcock in Psycho. C’è il male nella sua purezza assoluta, e c’è una sorta di spiegazione a quel male stesso, c’è una strada senza uscita. The Texas Chainswas Massacre ovvero Non Aprite Quella Porta, è un vicolo cieco, eppure chiaro. Com’è chiaro il protagonista, Leatherface a metà tra icona e abomino. Pauroso? Certo, ma anche drammatico e tragico. Facile chiamarlo carnefice, quando è lui stesso vittima del suo sangue. Quel sangue da cui, racconta l’aberrante sceneggiatura firmata da Hooper insieme a Kim Henkel, è lussuriosamente attratto.

Sul set del film.

Un film spaccato a metà, tra il giallo del sole texano e la luna che lo segue, con quella casa nella prateria che ricorda un dipinto: Christina’s World di Andrew Weyth. Una scenario che scandisce 24 ore degenerate e impazzite. E il Texas protagonista. Così, da capostipite degli slasher movie e dell’horror, il film di Hooper si fa libro di storia fantastico e brutale, in cui la svolta avviene per un piccolo ma fondamentale dettaglio: il gruppo di ragazzi protagonisti, finisce nella mattanza della famiglia Sawyer perché non ha più benzina. Non è un caso: sono gli Anni Settanta, la Crisi Energetica è appena scoppiata. Il greggio è merce rara, ogni tassello di sviluppo cementificato in quel decennio sta perdendo valore. Il capitalismo vuole i suoi frutti: olio e sangue. C’è una legittimazione alla violenza, discendente dalle guerre lontane. E la morale dogmatica di coscienza arcaica e malata, in cui è emblematica la scena simbolo dell’intero film: la cena infernale in cui Sally Hardesty, la final girl interpretata da Marilyn Burns, presiede a capo tavola.

Chi viene a cena?

A quel banchetto dell’orrore, c’è seduta l’altra faccia della famiglia americana. Hooper ci invita a cena, nell’archetipo perfetto di ogni famiglia bianca, credente e operaia. Il quadretto per eccellenza, insomma. E la memoria torna, come detto, al Norman Bates di Psycho. Come lui, anche Leatherface è figlio di una dottrina folle, ossessionato dalla madre, timorato da una famiglia inumana. È malato, Leatherface, come fu dichiarato malato il pazzo Ed Gein, serial killer di cui è meglio non ricordare le gesta, che ha ispirato Hooper per Non Aprite Quella Porta. Sconvolgente pensare che la casa dei Sawyer, con annesse mostruosità, sia in qualche modo esistita. Dunque, Hooper, tira le somme e, con una manciata di giorni di ripresa e un cast che mal digeriva la lavorazione, delinea i tratti di un mostro inconsapevole, spinto come la sua motosega ad uno squilibrio terrorizzato e terrorizzante.

L’alba del giorno dopo.

E, poi, c’è anche la narrativa della maschera. Però Leatherface di Non Aprite Quella Porta – così come tanti altri characater, da Halloween a Scream – non si nasconde al pubblico, bensì nasconde il suo volto a sé, in una smorfia demoniaca. Il Texas, si diceva, l’uso delle armi applicate all’arretratezza malata in uno spaccato del Paese rurale – e colpevolmente lasciato indietro – in cui Hooper, a colpi di pennello rosso sangue, tratteggia un dipinto impietoso e senza speranza. E, dunque, non manca di ironia accusatoria, e un messaggio pro-vegan, con Hopper che piazza l’uomo al centro di una catena alimentare che lo vuole carne da macello. Ruoli invertiti, e una legge del taglione con i carnefici sopraffatti dalle bestie. Senza pietà, senza rimorso. Così, nemmeno lo sguardo vuoto di Sally, alla fine della notte, può lasciare presagire qualcosa di buono.

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