ROMA – «A qualcuno piace freddo». Lo definì con questa parole la celebre critica statunitense Pauline Kael nella sua recensione sul McCall’s. Parole incisive e parodiche che nel parafrasare l’omonimo e caldo wilderiano ne condensavano l’essenza. Del resto la vita artistica de L’eclisse di Michelangelo Antonioni – e più in generale della Trilogia dell’Incomunicabilità – non è mai stata delle più semplici. A partire dal capostipite L’avventura che al Festival di Cannes 1960 venne accolto da fischi e ululati di disapprovazione per poi essere riabilitato decenni dopo da Martin Scorsese come: «Narrativa di luce, spazio, e oscurità, che sembra arte analitica». Con il successivo La notte le cose andarono meglio per Antonioni: Orso d’oro alla Berlinale 1961 per una produzione dal respiro internazionale che vedeva la presenza di autentici titani come Marcello Mastroianni e Jeanne Moreau, accanto a una giovane ma già matura Monica Vitti.
Le premesse de L’eclisse erano quindi eccezionali. Non a caso era l’opera più attesa al Festival di Cannes 1962. Dopo la prima però qualcosa sembrò andare storto. Vinse ex-aequo il Prix spécial du Jury con il Processo a Giovanna d’Arco di Robert Bresson e fu in corsa per la Palma d’Oro (poi assegnata a La parola data di Anselmo Duarte). Ma con L’eclisse si avvertì lo spettro di una latente sterilità artistica. Come se l’arte di Antonioni rischiasse di ripetersi all’infinito in schemi narrativi alienati dal linguaggio filmico consolidato; o per dirla alla maniera colorita di Ingmar Bergman: «Antonioni è come spirato, soffocato dal suo stesso tedio. […] Preferirei di gran lunga vedere ‘Goldfinger’ che un suo film». Eppure, nonostante il disprezzo da parte del cineasta di Uppsala, non tutti la pensavano così. Per Scorsese – che del lavoro di Antonioni è sempre stato un sostenitore – L’eclisse ha rappresentato un passo avanti in termini narrativi: «Sembrava meno una storia e più una poesia».
Partendo dall’analitica e fredda cronaca degli ultimi istanti di vita di una relazione, Antonioni guida lo spettatore in un viaggio onirico tra le strade di una Roma dal crescente benessere. Rumorosa e caotica e in pieno boom ma segnata da una profonda crisi esistenziale. Silenziata nell’animo da un’infelicità inappagabile. Uomini e donne alienati, alla deriva in paesaggi vuoti di metafisiche e fredde architetture, che nel buio della notte, quando la luce dei lampioni diventa più fioca, trovano ad attenderli l’insonnia di una tempesta interiore. Sentimenti inespressi filmicamente catalizzati dalle volontà alienate di Piero e Vittoria di Delon e Vitti a cui Antonioni cuce un occhio registico tenero ed estraniante, regalando loro un intero mosaico di gesti d’amore vuoti, egoistici, e disinteressati, attraverso cui destrutturare il discorso amoroso. Del resto la scelta del titolo L’eclisse non era casuale. Gli venne nei primi mesi del 1962, quando si trovò a Firenze a filmare un’eclissi solare: «C’era un silenzio diverso da tutti gli altri silenzi. Una luce color cenere. Poi l’oscurità, e una quiete totale. Ho pensato che i nostri sentimenti si fermassero durante un’eclissi».
Intenti che trovano infine consolidamento nel climax. Quei ultimi sette minuti che a detta di Scorsese: «Ci hanno suggerito che le possibilità nel cinema erano assolutamente illimitate». Un formidabile esempio di regia intenzionale attraverso cui Antonioni manipola le aspettative del pubblico giocando di attese, depistaggi, e suggestioni, giungendo infine alla sparizione/assenza della coppia come privazione del desiderio d’amore. Un escamotage narrativo dal tempismo brutale e netto che se al tempo fu fonte di sconcerto, oggi appare di una bellezza abbacinante. Sette minuti seminali per provare a comprendere la grandezza di Antonioni. Non erano di questo avviso alcune distribuzioni esotiche che – per ragioni commerciali – operarono tagli a piacimento. Come negli Stati Uniti dove per un paio d’anni L’eclisse fu proiettato mancante proprio del climax originale ritenuto incomprensibile. In Germania si limitarono ad appena tre minuti di tagli lasciando del tutto integra la sequenza finale. In Argentina fecero perfino “meglio”: oltre trenta minuti di tagli rispetto al montaggio definitivo al fine di favorirne il ritmo.
Una nazione dove invece L’eclisse fu accolto in tutta la sua bellezza è il Giappone. È opinione comune tra i nipponici che quello dell’opera di Antonioni sia un brillante esempio di mini-teatro. E non solo questo. Nei karaoke degli anni Novanta alcune delle scene furono utilizzate come sfondo musicale a brani nostalgici. La trovata deve essere arrivata sino in Grecia perché nel 1993 il cantautore ellenico Lavrentis Machairitsas scelse proprio alcune sequenze de L’eclisse per sottolineare il pathos nel videoclip della canzone Mikros Titanikos/Piccolo Titanico. Le mille e una vite di un L’eclisse che tra trasformazioni inaspettate e sorprendenti è giunto al sessantennale mantenendo intatta – se non perfino arricchita – la propria aura. Sarà anche l’ultima opera che Antonioni girerà in bianco e nero. Due anni dopo sarà la volta di Deserto rosso con cui la Trilogia diventerà Tetralogia dell’Incomunicabilità: un poker di suggestioni e ispirazioni per cineasti e cinefili nel segno di una Monica Vitti divenuta grazie ad Antonioni musa leggendaria ed alienata dalle molteplici evoluzioni recitative.
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