ROMA – Prima un velocissimo appunto: chi dice che il cinema è ormai morto sbaglia, e sbaglia di grosso. Perché forse (forse) non avrà la stessa influenza di un paio di decadi or sono, ma l’arte cinematografica resta ancora la più potente e immaginifica di tutte. Come dimostra, qualora ce ne fosse davvero il bisogno (in fondo, di scettici, polli e gonzi ne è pieno zeppo il suo film), Guillermo del Toro con l’undicesimo lungometraggio, adattando per il grande schermo La Fiera delle Illusioni – Nightmare Alley (già trasportato al cinema da Edmund Goulding nel 1947), pubblicato nel 1946 da William Lindsay Gresham. Autore ingiustamente dimenticato che ha dovuto combattere con un’esistenza infame e che, per l’epopea di Stanton “Stan” Carlise, pare abbia preso spunto da una storia vera carpita durante la Guerra Civile Spagnola, dove prestò servizio volontario come medico.

Così per comprendere il film di del Toro, che rende la vicenda faustiana trasudando di assurdo e di ambiguo, va considerato che l’autore originale, così come i suoi personaggi, ha vissuto una vita al limite, in bilico tra la ragione e l’ossessione, cercando in tutti i modi di controbattere e smascherare gli imbonitori dell’occulto che, tra i circhi fuori città e i ristretti circoli d’élite, facevano leva sul sogno e sulle illusioni di una nazione dilaniata dalla Grande Depressione. Come il protagonista, quello Stan interpretato da un grande Bradley Cooper, che la macchina a mano riprende quasi sempre dal basso, scoprendone poco a poco la sua natura. Entrando in scena come se la sua silhouette fosse quella di Indiana Jones (!) in un film di Terrence Malick (!!), lo Stan di Cooper, nelle sue sporcature e nella sua evoluzione, diventa cinema puro e, al contempo, la metafora perfetta di quanto gli Stati Uniti abbiano costruito il loro impero sulle ceneri di un fuoco che brucia speranza e verità.

Lo Stan de La Fiera delle Illusioni è di poche parole com’è poca la luce sul suo passato. Dice che “mai” diventerà come suo padre, detestato ubriacone, anche se poi si ritrova a vagare nel Midwest possedendo solo un cappello e un vecchio orologio. Stan, dagli occhi chiari e dalla barba incolta, finisce poi in un baraccone itinerante di freak. Qualche dollaro, la minestra calda, un sacco asciutto dove poter dormire. Ma a lui non basta, non gli può bastare. Così, mentre Guillermo del Toro scandisce il tempo filmico giocando con il ticchettio amplificato dell’orologio, dipingendo la prima parte della sua opera come fosse una fotografia di Dorothea Lange, Stan scende a patti con l’inferno della sua vera natura e comincia ad addentrarsi nel mondo dell’occultismo, della lettura della mente, della spiritualità. Ne resta affascinato, invischiato. Lui, nel gruppo di reietti guidati da Clem Hoateley (Willem Dafoe) è il genio e l’intelletto. Di certo non è l’uomo bestia, diventato fenomeno da circo e svuotato, grazie all’etanolo, da qualsiasi abbaglio cosciente.

La strada è tracciata, quindi: Stan diventa un perfetto imbonitore, molla il circo e, giurando amore a Molly (Rooney Mara, magnifica rappresentazione dell’innocenza primordiale schiacciata dall’opportunismo moderno), la porta con sé alla ricerca della fortuna e delle gloria. Ed è qui che La Fiera delle Illusioni cambia di netto prospettiva, mutando in un noir psicologico in cui ogni frame riflette il conflitto che fa da congiunzione e coniugazione alla storia: la verità da una parte, la menzogna dall’altra. In mezzo l’ascesa di un uomo cinico, spietato e avido, che comprende quanto sia allettante (ed altamente remunerativo) destreggiare e destrutturare le paure degli altri, facendone un incubo irresistibile vissuto ad occhi spalancati. La potenza di “possedere” e “controllare” la mente, Stan ne diventa appunto dipendente e assuefatto, superando un limite che lo porta ad essere una vera e propria mostruosità, tanto da che la luce di Dan Lausten – in un colpo d’alta classe – finisce per fotografarlo come fosse Peter Lorre in M – Il mostro di Düsseldorf.

Già perché Guillermo del Toro, che nella messa in scena e nella poetica omaggia addirittura gli apici di John Steinbeck e di Quarto Potere, costruendo probabilmente il suo migliore film (almeno fin ora), non abbandona di certo la sua attrattiva per i mostri e per le relative simbologie. Anzi, sfiorando solo superficialmente gli echi e le intenzioni de La Forma dell’Acqua, La Fiera delle Illusioni diventa un vero e proprio manifesto di quell’orrore racchiuso nelle viscere di un uomo normale, eppure scrigno di quelle ambiguità e di quelle illusioni che ne tracciano il suo percorso, marcandone la vita come un temporale incessante marca la terra. Un percorso che rispecchia, guarda caso, quello dell’America, nata e costruita inneggiando ad una speranza illusoria ed effimera. Per questo La Fiera delle Illusioni di Guillermo del Toro da fiaba nerissima muta forma in un grande romanzo americano, tempestato dall’ambizione e dalla disperazione umana. Finendo, naturalmente, per essere miracolosa arte cinematografica.
Qui il trailer de La Fiera delle Illusioni – Nightmare Alley:
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