ROMA – Archeologo, ufficiale dei servizi segreti, militare, scrittore e molto altro ancora. Thomas Edward Lawrence fu senza dubbio uno tra i più grandi uomini che la storia del Novecento ricordi e il suo contributo nella cosiddetta Rivolta Araba al tempo della Grande Guerra permise di dare stabilità, ordine e coesione a una terra caotica che non avrebbe trovato praticamente più pace. Quelle gesta leggendarie dall’inevitabile e irresistibile appeal ovviamente attirarono l’interesse del cinema e non stupisce quindi come – all’apice della sua creatività – il cinema moderno americano riuscisse nel 1963 a partorire un’opera totale come Lawrence d’Arabia di David Lean. Probabilmente il capolavoro del regista (ma la sfida è ardua, pensando anche a Il dottor Zivago e a Il ponte sul fiume Kwai), vincitore di sette Oscar tra cui miglior film e miglior regia. In definitiva, l’apogeo filmico del genere kolossal. Ma non solo.
In realtà prima di Lean ci provarono in tanti a realizzare un biopic sulla gesta di Lawrence. Già negli anni Quaranta, Alexander Korda si interessò ad un adattamento della memorie di Lawrence, I sette pilastri della saggezza, con Laurence Olivier come protagonista, progetto poi naufragato. Dieci anni dopo, precisamente nel 1952, le strade di Lean e Lawrence d’Arabia s’incrociarono per la prima volta. L’opera però avrebbe avuto connotati ben diversi rispetto al kolossal capolavoro del 1962. Una produzione Rank Organization (Breve incontro, Grandi speranze). Anche qui però, progetto mai realizzato per difficoltà finanziarie. Circa cinque anni dopo, all’indomani del successo de Il ponte sul fiume Kwai, s’iniziò a fare sul serio. Sam Spiegel riuscì a convincere un riluttante Arnold Walter Lawrence (il fratello di Thomas, scomparso nel 1935) a cedere i diritti di utilizzazione economica della sua opera letteraria.
Era tutto pronto. C’erano Lean, la sua impareggiabile visione e una Columbia decisa a investire. Poco prima dell’inizio della pre-produzione però sorse un incredibile inconveniente di puro tempismo. Nello stesso periodo Terrence Rattigan iniziò a lavorare su Ross, pièce che raccontava l’omosessualità di Lawrence al tempo della Royal Air Force. L’opera, che aprirà i battenti a Broadway e vedrà proprio il futuro Principe Faysal Alec Guinness come Lawrence, rallentò di molto i piani della Columbia. Spiegel ribollì di rabbia e mise il progetto in stand-by finché Ross non fosse andato ad esaurirsi dai palinsesti teatrali, cosa che effettivamente accadde l’anno successivo. Solo allora Lawrence d’Arabia ebbe finalmente semaforo verde e a nulla poté una quasi moribonda Rank Organization nel mettere in cantiere una versione cinematografica di Ross con Dirk Bogarde a prestare il volto a Lawrence perché il progetto ebbe finalmente inizio.
Lawrence d’Arabia fu presentato il 10 dicembre 1962 a Londra, ma molti biografi si lamentarono da subito della caratterizzazione del condottiero britannico. Il problema principale era di tipo fisico: Lawrence era alto 1,65 metri circa, mentre O’Toole oltre l’1,88. Oltre a questo, lo script di Lean descriveva Lawrence come un egoista ambiguo, specie nel modo in cui si ritrova a prender parte agli eventi. Una scelta narrativa che in realtà fece letteralmente impazzire Martin Scorsese che negli anni ne elogiò la dimensione auto-distruttiva da b-movie. A detta di Lowell Thomas e del suo reportage With Lawrence in Arabia del 1924, non è chiaro fino a che punto il vero Lawrence volesse o meno prender parte all’impresa. Il quadro che ne emerge è quello di un uomo che se i primi tempi non voleva nemmeno essere fotografato, con le luci della ribalta finì con il posare egli stesso, con convinzione.
Stesso discorso a proposito dell’orientamento sessuale. In Lawrence d’Arabia non viene mai menzionata la sua dichiarata omosessualità. Per alcuni storici non era null’altro che un bugiardo patologico ed esibizionista, per altri un recluso nello spirito e nel corpo (cosa di cui Lean fa menzione nella sequenza del funerale in apertura di racconto). Ulteriore criticità è relativa al background narrativo dell’agente scenico principe: nella costruzione caratteriale alle radici del conflitto ci viene mostrato un Lawrence cartografo di biblioteca ritenuto la pecora nera degli Uffici arabi. Nonostante questo però, parla fluentemente la lingua del popolo ed è molto competente. In realtà Lawrence fu grande ancor prima che la vita lo rese d’Arabia. Lungo tutta la decade, infatti, diede un contributo importante alla Rivolta Araba tra viaggi archeologici e un prezioso lavoro di spionaggio. Una rilettura chiaramente funzionale al potenziamento della base di partenza del viaggio dell’eroe che andrà a dispiegarsi.
Eppure oggi come oggi sarebbe (quasi) impensabile immaginare un qualsiasi altro volto cinematografico per Lawrence. Peter O’Toole gli diede un’umanità mutevole cristallizzatasi nella memoria comune tanto che quella di O’Toole e Lawrence – a dispetto delle opinioni di alcuni storici che persistono – si rivelò un’autentica mimesi spirituale. Certo, l’attore inglese non amava il deserto e la sabbia quanto il condottiero, e per le scene a dorso di cammello utilizzava un cuscinetto che gli valse, tra i beduini, il soprannome di Padre delle Spugne, ma la storia diede ragione a Lean. Nella sequenza dell’assalto ad Aqaba, O’Toole stava rischiando di morire calpestato dai cavalli delle comparse perché disarcionato dal cammello, soltanto per un miracolo rimase aggrappato all’animale. Incidente che capitò con la stessa inerzia proprio a Lawrence nella battaglia di Abu El Lissal nel 1917. Coincidenze di cinema.
Eppure è per puro caso che O’Toole è diventato Lawrence ed è entrato nel mito. Nella rosa dei candidati eccellenti di Spiegel c’erano infatti Marlon Brando, Anthony Perkins e Montgomery Clift. All’ultimo la spuntò contro ogni pronostico un ancora sconosciuto Albert Finney e fu con Finney che Lawrence d’Arabia crebbe nella pre-produzione, salvo poi essere licenziato in tronco dopo due giorni di riprese. A Spiegel piaceva pochissimo, così come Clift che – dopo averlo visto in un adattamento teatrale di Improvvisamente l’estate scorsa – lo ritenne inadatto. O’Toole però aveva dalla sua una somiglianza cromatica con Lawrence e il favore di Lean. Lo stesso non può dirsi per Omar Sharif che in origine non sarebbe dovuto essere lo sceriffo Ali, ma la guida Tafas. Lean scelse Alain Delon come co-protagonista ma il fallimentare screen test con le lenti a contatto marroni lo tagliò fuori dal progetto.
Quando Quarto potere arrivò al cinema, Orson Welles raccontò come la principale ispirazione registica del suo esordio fosse Ombre rosse di John Ford, a suo dire il perfetto manuale di regia. Si dice che Welles lo guardò più di quaranta volte in preparazione alle riprese. Circa vent’anni dopo, le parole di Welles fecero evidentemente eco perché la dichiarata ispirazione registica eccellente di Lean dietro a Lawrence d’Arabia è riconducibile ancora ad un altro grande capolavoro fordiano: Sentieri selvaggi. Ed effettivamente c’è molto di Ford nel racconto di Lawrence d’Arabia. Narrazione con cui Lean trasla la valenza filmica e il respiro scenico delle Monument Valley nella Valle della Luna (Wadi Rum) ricalibrandone l’essenza in un viaggio dell’eroe che è esplicitazione degli archi di trasformazione in una dimensione a più ampio raggio.
Un kolossal colossale – ripetizione inevitabile – dal respiro registico imponente e dal minutaggio proibitivo dove tutto sa di grandezza: la cura scenografica della costruzione d’immagine pittoresca, la colonna sonora di un genio come Maurice Jarre – che qui vinse il primo dei suoi tre Oscar, partitura poi citata in 007 – La spia che mi amava – i colori sgargianti e pastosi che brillano come in un dipinto, perfino la digressione temporale su cui cresce il racconto vive di tangibile corposità. Ma soprattutto di ambiziose intenzioni registiche. Perché quel match-cut dallo stacco di montaggio netto e asciutto in cui Lean fa coincidere il soffio di Lawrence su di un fiammifero con il campo lungo di un alba in pieno deserto, è quanto di più puro e più poeticamente vicino a un sogno in formato filmico.
La grandezza visiva di Lawrence d’Arabia va in realtà in antitesi con l’approccio alla crescita caratteriale scelto da Lean. Semplicità e cura del dettaglio in una crescita popolata di minimi particolari che vanno dai dettagli del vestiario (nell’abbandono dell’uniforme inglese per vestirsi della tunica araba Lawrence muta la sua percezione del contesto scenico) sino alla cura narrativa degli oggetti. Elemento quest’ultimo a cui Spielberg offre una spiegazione più che esaustiva: «C’è una scena in cui si guarda riflesso nel pugnale, quando gli vengono dati gli abiti e pensa d’essere da solo. Si gira ridendo, guardando la sua ombra e vede che le sottili vesti che indossava erano impresse nell’ombra sulla sabbia. Poi, dopo, quando fanno strada i Turchi in ritirata, lo si vede di nuovo ricoperto di sangue che tiene il pugnale esattamente come lo teneva nei suoi giorni di gloria e si guarda riflesso, guarda chi è diventato».
Una sfumatura di racconto che per Spielberg ha rappresentato il colpo di fulmine e l’inizio della sua lunga storia d’amore con il cinema: «Quella fu la prima volta che, guardando un film, capii che esistono altre tematiche oltre a quelle narrative: esistono delle tematiche che sono i personaggi stessi e sono dentro i personaggi. David Lean aveva creato una ritrattistica. Aveva trasformato un ritratto in una morale con uno scopo e una trama assurda, ma è proprio nel cuore di Lawrence d’Arabia che io rivedo me stesso». Ironicamente, il capolavoro di Lean ha inciso anche sulle scelte di casting di uno dei grandi film della sua carriera: Schindler’s List. Grazie a A Dangerous Man: Lawrence After Arabia del 1990, infatti, Spielberg scoprì il talento di Ralph Fiennes e lo contattò immediatamente per offrirgli la parte del nazista Amon Goeth cambiandone per sempre la carriera e il futuro.
Ma se i cinefili possono avere una passione profonda per Lawrence d’Arabia (oggi si trova su Prime Video e AppleTV+) quello di Spielberg è invece amore trascendente, quasi ossessione, la stessa che nutriva Orson Welles per Ombre rosse e lo stesso Lean invece per Sentieri selvaggi: «Un miracolo di film. Prima di cominciare delle riprese di un nuovo film riguardo sempre Lawrence d’Arabia», ha ammesso Spielberg. Lo scoprì da adolescente e fu una folgorazione, di quelle capaci di leggerci dentro e riscoprirsi uomo sino a segnarne il cammino. Lui come tanti altri. Una delle più incredibili pagine della storia del cinema, un vero miracolo lungo oltre duecento, fondamentali, minuti.
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