ROMA – Quando il kung fu racconta le pene d’amore. Gabriele Mainetti, autore de Lo chiamavano Jeeg Robot, non ha certo scordato l’ultima scottatura, quella di un film ambizioso come Freaks Out, e a distanza di quattro anni, dopo alcuni progetti realizzati nelle vesti di produttore e nulla più, ritorna dietro la macchina da presa, firmando regia e sceneggiatura – quest’ultima in collaborazione con Stefano Bises e Davide Serino – di La città proibita, in uscita il 13 marzo. Dopo la guerra mondiale e l’ambiente bellico di Freaks Out, Mainetti approda al mondo del kung fu, rispettando inizialmente lo scenario d’appartenenza, quello asiatico, per poi portare lo spettatore nel corso di un tanto tumultuoso, quanto drammatico viaggio, che viaggio non è, trattandosi di una “spedizione” di schiave destinata all’Italia. Non tutte saranno costrette al sesso, eppure senza eccezione alcuna, verranno umiliate, spogliate e catalogate.

Esclusa Mei – interpretata da Yaxi Liu, faccia purissima da cinema – che non ha più alcuna intenzione di sottomettersi ad ordini di altri e che a differenza delle altre donne, ha scelto di essere lì. Non per il sesso, né per il denaro, ma quando la famiglia chiama, non si può che rispondere, specialmente di fronte a vendetta e sangue, che ha insozzato più di una mano e più di un corpo e che impunito, sopravvive nella speranza di non pagarla mai. Però, come recitava una celebre poesia di Cesare Pavese: “Verrà la morte e avrà i tuoi occhi”. Nel caso de La città proibita, a dover pagare sono in molti, qualcuno consapevolmente, qualcuno meno. Eppure, gli occhi di Mei non intendono risparmiare nessuno, poiché la giovane, cresciuta nella miglior tradizione delle arti marziali cinesi, non intende arrestare il cammino, nemmeno di fronte a quell’unica salvezza possibile – l’amore per il cuoco Marcello (Enrico Borello, bravissimo, ma noi lo diciamo dai tempi di Settembre) -, pur di raggiungere l’insaziabile vendetta, che la costringerà ad osservare la morte, questa volta per davvero.

Attorno a Mei, uomini che hanno rincorso e perduto l’amore, altri che non hanno mai smesso di desiderarlo, inseguendolo nel peggior modo, osservandolo tra una pausa e l’altra dalla violenza, dallo strozzinaggio e dal male. L’Annibale di Marco Giallini per questa ragione non è un villain come tanti, al contrario, è un uomo come tanti, che sopravvive alla disperazione, facendola propria e assumendola su di sé fino in fondo, senza riserva, come fosse una vera e propria veste, o peggio, una doppia pelle. Dopodiché ci sono tutti gli individui che all’amore sono sopravvissuti, o meglio, coloro che nonostante l’abbandono, sono rimasti, continuando a vivere. Lo sanno bene la Lorena di Sabrina Ferilli (un po’ svampita, un po’ coriacea) e il figlio Marcello (che allo scontro più drammatico e potenzialmente conclusivo con Mei, risponde con un bacio, dando inizio alla dimensione rom-com del film), malinconici e destabilizzati dall’allontanamento del marito e padre Alfredo (Luca Zingaretti), eppure ancora in piedi, affamati d’amore.

Il kung fu dal sapore tarantiniano intrattiene, ma c’è anche il cinema di Gareth Evans, anche se presto il film sceglie di restare ancorato allo spazio narrativo e allo scenario a cui deve tutto: Roma e l’Italia. Mainetti resta fedele a sé stesso, non intende mai realmente replicare l’action statunitense tra kung fu e comedy, né tantomeno sacrificare le ambientazioni romane in nome di un linguaggio altro. La città proibita è un ottimo esempio di cinema d’intrattenimento d’ampio pubblico, firmato da un autore, la cui impronta appare in ogni inquadratura. Non sono molti gli autori che fanno cinema che vorrebbero vedere come spettatori e Mainetti è uno di loro. E noi abbiamo bisogno di questo dinamismo, di queste idee, per quanto figlie di un altro cinema, per quanto frutto d’altri sguardi. Quando il kung fu racconta le pene d’amore. Non casualmente De André con La canzone dell’amore perduto. Chi la intona, lo ha perduto e si è perduto già, forse definitivamente. Si ritroverà?
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