MILANO – Prima di diventare una leggenda, era solo uno dei molti figli di immigrati senza un dollaro in tasca. Si chiamava Izzy Demsky, era figlio di una coppia di russi e girava per New York senza un dollaro in tasca, al punto che una notte si fece arrestare per poter passare la notte al riparo, in prigione. La vita di Kirk Douglas – scomparso a 103 anni – è praticamente la sintesi perfetta di tutto ciò che significa l’american dream: cresciuto in miseria, sarebbe diventato uno degli uomini più potenti di Hollywood anche se l’Oscar lo avrebbe vinto solo nel 1996 e per la carriera, nemmeno per un’interpretazione specifica, ennesimo abbaglio dell’Academy.

Ma chi era Issur Danielovitch Demsky? Nato nel 1916 a New York in una famiglia di ebrei russi in cui si parlava solo yiddish, Izzy Demsky divenne Kirk Douglas nel 1941 quando si imbarcò con la Marina americana. Tornato a Manhattan nel 1943, cominciò a cercare piccole particine e ruoli in radio prima della grande occasione a teatro: la sostituzione di Richard Widmark al Bitmore Theatre in Kiss and Tell. Un caso che fu la sua fortuna. Da quel momento, era il 17 marzo del 1943, Douglas decise che il suo futuro sarebbe stato solo a teatro, ma non aveva fatto i conti con il destino che gli arrivò nelle forme di Lauren Bacall che due anni dopo lo propose per un piccolo ruolo nel nuovo film di Lewis Milestone, Lo strano amore di Marta Ivers, il suo debutto cinematografico.

Da lì in poi è leggenda: il primo capolavoro arriva nel 1951 grazie a Billy Wilder a L’asso nella manica, poi la Disney con 20.000 leghe sotto i mari e il ritratto jazz di Bix in Chimere, quindi l’incontro con l’amato e odiato Kubrick che gli avrebbe cucito addosso due capolavori come Orizzonti di gloria e Spartacus, non senza difficoltà. Il mito narra di epiche discussioni in camerino con l’attore pronto a tirare al regista l’intera sceneggiatura se le cose non fossero state girarte come voleva lui. Uomo tutto d’un pezzo, mai tenero con nessuno, Douglas non seguiva mai le indicazioni del regista, si preparava in solitudine e poi metteva in scena quello che aveva provato.

Western e biopic (indimenticabile il suo Van Gogh), film d’autore e classici, da Sfida all’O.K. Corral al viaggio in Italia con Mario Camerini per Ulisse, con Douglas sparisce per sempre la grande Hollywood del Novecento (rimane solo Olivia de Havilland, ma lì il mito è diverso), la fabbrica di sogni capace di costruire divi in grado di trainare un’intera economia: a metà anni Cinquanta Douglas era l’esempio dell’uomo tutto d’un pezzo, un attore capace di essere un modello per gli uomini e l’oggetto del desiderio per le donne, in grado di portare in sala milioni di persone solo con il suo nome stampato sul poster del film. Poco prima della rivoluzione totale di Brando e con in testa la lezione di Bogart, Douglas fu uno dei primi attori a portare qualcosa di nuovo sullo schermo, una tensione mai vista prima in un’industria che tendeva sempre a rassicurare chi sedeva in sala.

Dopo i fasti degli anni Cinquanta e parte dei Sessanta (tipo I cinque volti dell’assassino di John Huston, spesso dimenticato), Douglas negli anni Settanta girò anche qualche film in Italia, pellicole minori come Un uomo da rispettare a fianco di Giuliano Gemma e Holocaust 2000 con Agostina Belli. Di fatto negli ultimi quarant’anni non ha più girato nulla di rilevante (a parte The Fury di De Palma) e nel 2003 provò anche a ritornare con un film familiare, Vizio di famiglia, a fianco del figlio Michael e del nipote Cameron che al botteghino non funzionò.

Di lui, oltre ai film, rimangono i rumors e le voci su casi mai chiariti (le ombre sul caso Natalie Wood) ma anche le battaglie politiche, su tutte quella per Dalton Trumbo, sceneggiatore escluso dalla Hollywood che contava per presunte simpatie comuniste e condannato a undici mesi di prigione, riabilitato proprio grazie a Douglas che lottò per inserire il suo nome nei titoli di testa di Spartacus. «Se vuoi raggiungere qualcosa, devi essere abbastanza coraggioso da contemplare il fallimento», amava ripetere. E non c’è dubbio che lui lo fu, al punto che riuscì a trasformare Izzy Demsky, il povero figlio di due analfabeti russi, in un’icona assoluta del Novecento.
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