LOCARNO – «Se The Old Oak sarà il mio ultimo film? Probabilmente sì». Sì, Ken Loach è un gigante e davanti ai giganti c’è poco da fare o dire. E non lo è solo dietro la macchina da presa, nella capacità di indagare le brutture, le povertà e le marginalità. È un gigante nel modo di fare, di porsi e rispondere. Lo abbiamo incontrato – insieme al suo storico sceneggiatore Paul Laverty – a Locarno, al Locarno Film Festival, poche ore prima della proiezione in Piazza Grande di The Old Oak, ultima opera del regista, 87 anni appena compiuti. Un lungometraggio che racconta, in un ex-località mineraria dell’Inghilterra in declino, la storia del proprietario del The Old Oak, ultimo pub rimasto che fatica sempre di più a tenere aperto. Cinema, ideologia, identità: ecco cosa ci ha raccontato Ken Loach durante il nostro incontro.
THE OLD OAK – «Il film nasce dal desiderio di voler parlare dei molti villaggi che sono stati abbandonati quando hanno chiuso le miniere, inizialmente è stata un’idea di Paul. Sentivamo che, dopo gli ultimi due film, ci fossero ancora delle questioni in sospeso. Così abbiamo camminato per questi villaggi e incontrato gente anziana che ricordava ancora l’odore della carne che bruciava nelle miniere. Abbiamo parlato con loro, siamo entrati nelle loro case e ciò che ci ha colpito di più è stata la differenza tra loro e altre persone più giovani che abitano nelle stesse strade, la cui vita è stata distrutta. Paradossalmente gli anziani erano più in salute di quelli di trenta o quarant’anni più giovani. Come dice Paul, il passato fa parte del nostro carattere inglese, non è solo una nozione. Abbiamo visto la disintegrazione che portò lo sciopero del 1984, la perdita di lavoro…».
NOI E LA SIRIA – «Nel film abbiamo assunto il punto di vista dei siriani che finiscono in questa comunità: da alcuni si sentono dire di andarsene, da altri invece come possono essere aiutati. Perché? C’era e c’è ancora questa dicotomia e volevamo assolutamente raccontarla. La cosa più importante per raccontare una storia è prima di tutto capire. Se si vive in quelle comunità e la casa accanto alla tua viene comprata per seimila euro per dare rifugio a qualcuno che ha problemi di droga, ad esempio, tutto il tuo mondo crolla, e non hai alcun potere, alcun controllo. Non puoi andartene, non puoi vendere la tua casa, ti senti in trappola. E sì, in parte è vero, sono stati fregati. Quindi quello che potevamo fare era capire la loro posizione e raccontarla…».
LA DIGNITÀ – «Ciò per cui la gente combatte è la sicurezza e la dignità. E in tutte e tre le situazioni gli sono state portate via entrambe: che fosse Daniel Blake costretto alla fame, che fossero i lavoratori occasionali che non hanno sicurezza sul lavoro, che sia qui con queste persone sfruttate e abbandonate, alcune anche con il trauma di una guerra alle spalle. Il comune denominatore dei film miei e di Paul è una società basata sul profitto, dove la libertà di mercato viene scambiata per libertà. Sono tutti sintomi di un unico conflitto socio economico…».
CINEMA E IDEOLOGIA – «Penso che l’ideologia debba venire prima, perché se prima non si indaga su cosa provochi i cambiamenti nelle persone, non c’è modo di affrontarli. Ripenso al 1945 quando le persone sentivano di aver vinto la guerra, c’era un grande senso di solidarietà. Le industrie chiave, le ferrovie, le miniere, tutto apparteneva al popolo, non erano di compagnie private. E questo cambia tutto. Siamo arrivati al punto che i grossi imprenditori aprono i banchi alimentari come atto di generosità e umanità, e vengono anche celebrati. Viene celebrata la fame e la povertà, è tutto molto ironico. Bisogna partire da questa analisi e capire chi e come possa cambiarla. C’è una differenza notevole se si pensa anche solo a quindici anni fa, nel numero di banchi alimentari e non solo (mense, dormitori), e al fatto che ormai siano radicati nella nostra coscienza, e siano visti come beneficenza e non come diritti legittimi…».
Il tempo scade, l’incontro volge alla fine ma c’è ancora qualche secondo per un’ultima domanda che non può non incuriosire tutti ed è anche quella che tutti vogliono ascoltare per sapere la risposta: «Ma Mr. Loach, questo sarà davvero il suo ultimo film’?». Qualche istante di silenzio, una pausa, poi nel volto del regista non appare la consapevolezza di chi ha già una risposta definitiva. Accenna un sorriso e poi però dice: «Si, probabilmente sì…».
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