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La forma dell’attore | James Gandolfini, tra Tony Soprano e il Balzac di Rodin

Un estratto del libro di Marzia Gandolfi dedicato a Gandolfini, Brad Pitt, Clint Eastwood e Tom Cruise

ROMA –  James Gandolfini e Brad Pitt, Clint Eastwood e Tom Cruise. Cosa hanno in comune questi attori? Apparentemente nulla, vero? Ma c’è un libro, La forma dell’attore, edito da Santelli Editore e scritto da Marzia Gandolfi (già autrice di un bellissimo saggio, Kind of Blue, dedicato al cinema di Barry Jenkins) che attraverso quattro figure classiche – rispettivamente il Balzac di Rodin, il Torso del Belvedere, L’Homme qui marche e Filippide l’emerodromo – individua nella forma del corpo, rispetto all’espressività dei gesti, la chiave per interpretare le loro performance. Un’analisi che (ri)mette al centro l’attore e attraverso cui fotografa l’evoluzione del cinema americano, dalla golden age di Hollywood al ruolo sempre più centrale della TV. Qui sotto trovate un estratto del libro, L’attore operaio, dedicato a James Gandolfini. Quel Tony Soprano che ha rivoluzionato il piccolo schermo, corpo estraneo nella serialità americana capace di accorciare la distanza tra vita reale e finzione grazie a un boss in vestaglia, tra sformati di pasta, omicidi e sedute dall’analista.

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La copertina di La forma dell’attore di Marzia Gandolfi. Edito da Santelli Editore

«Doug Riley (James Gandolfini) è sposato da trent’anni con Lois (Melissa Leo). Due anni prima hanno perso una figlia e adesso provano a sopravvivere. Ciascuno a suo modo. Doug si è rifugiato a New Orleans, Lois si è volontariamente reclusa nella loro casa a Indianapolis. Ma la decisione del consorte di dislocare il dolore, la convince a riprendere la vita e a riprendersi l’uomo che ama. Quello che non ama invece è volare. Per questo guiderà fino a New Orleans la macchina di Doug parcheggiata in garage in attesa di una ripartenza. Seduta al volante a motore spento la figura minuta di Melissa Leo misura una forma e un’assenza: lo spazio occupato dal corpo di James Gandolfini nella narrazione del film (Welcome to Rileys) e in quella del cinema. Una silhouette inedita nell’immaginario della fiction americana, sbucata dal Lincoln Tunnel e lanciata in una massa confusa di interscambi stradali e di edifici suburbani presi al volo sul groove degli Alabama 3. Non da un décor newyorkese concepito da Santo Loquasto ma da una periferia popolare che nessuno conosce(va).

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James Gandolfini e Kristen Stewart in una scena di Welcome to Rileys

Il suo ingresso è un’epifania. Quando si manifesta nel paesaggio televisivo americano, landa tranquilla dove i fiumi non debordavano mai dal loro letto, facciamo la conoscenza di un personaggio all’apparenza ordinario per meglio apprendere il ‘mostro’ che diventerà in seguito. Con Gandolfini non assistiamo alla nascita di una star, seguiamo un percorso che esprime al contrario l’impossibilità di esserne una. Impossibile essere la star che fa sognare come Brad Pitt. Il corpo solido, la voce che risuona con la collera ma fa eco alla sua infanzia è tutto quello che seduce nell’attore prima che diventi un nome e poi un divo che non sarà mai come gli altri. Ma ha qualcosa degli altri. È una sintesi improbabile tra la sicurezza imperturbabile di Marlon Brando, la rotondità gourmand di Jackie Gleason e un truc à la Depardieu. Basta guardare Le Nouveau Monde (1995) di Alain Corneau per convincersi. Gandolfini all’epoca ha trentatré anni e la maniera ‘alla Depardieu’, un modo di fare e di mettere i capelli en arriere, un’assenza nello sguardo, un desiderio a fleur de peau, un gran naso piantato come un apostrofo sul viso e la stessa facilità a passare dalla fragilità alla minaccia.

James Gandolfini e Sarah Grappin in Le Nouveau Monde

La stessa incredibile energia, la stessa incandescenza, qualcosa di intenso e impossibile da trattenere. Entrambi hanno vissuto una putain de vie, entrambi si qualificano figli del popolo per distinguersi dai borghesi e dal jet set. Dentro il racconto di formazione di Corneau, la divisa da sergente dell’esercito americano e la città francese di Orléans, che tra il 1950 e il 1967 viveva la sua parantesi americana, James Gandolfini guarda la route sulla quale scorrono vetture minuscole. Perché per lui tutto è piccolo sul set: le bottiglie di birra spariscono nel pugno, le poltrone ‘esagonali’ gli stanno strette, l’orizzonte della côte d’Arcueil troppo angusto. Il suo genere è il New Jersey, la grand banlieue di New York dove i songwriters e i poeti convivono con gli svitati che brevettano macchine per fabbricare il cappello di procione di David Crockett. Gandolfini è il Jersey guy della periferia newyorkese, cresciuto in uno Stato industriale e commerciale costruito all’ombra della Big Apple dagli immigrati irlandesi e italiani. New York, al di là del fiume, non è lontana ma per troppi resta irraggiungibile.

James Gandolfini è Tony Soprano

Gandolfini era nato a Westwood, N.J., il 18 settembre del 1961 da una famiglia della working class di origine italiana. Con Tony Soprano, il mafioso depresso che lo ha reso improvvisamente celebre, condivideva la città-fabbrica, terra di tutti i declassati d’America: proletari, sottoproletari, disoccupati, spacciatori e homeless che rovistano nella stessa spazzatura. Quelli che Bruce Springsteen ha celebrato nei suoi migliori album (da Born to run a Born in the USA), quelli indissociabili dall’immagine di un’America abbandonata dove il Sogno americano si distorce in un’immagine di depressione e sfruttamento, violenza e ingiustizia sociale. Giungla di perdenti e di perduti filmata nel tragitto di Tony Soprano: backstreets e shopping center, padiglioni industriali e magazzini dismessi, autostrade e fabbriche, diner e specchietti retrovisori dove le ragazze si truccano e le Twin Towers scompaiono dopo la terza stagione dei Soprano. Gandolfini si lascia alle spalle New York, décor privilegiato dei film di mafia, per investire in un territorio vergine dove pianta la sua leggenda e la incarna.

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James Gandolfini in versione Balzaz di Rodin. Illustrazione a cura di Ermanno Billi

In linea con la tradizione del cinema classico americano, che definisce i suoi eroi per l’incarnazione piuttosto che per la psicologia, i suoi personaggi sono prima di tutto un corpo. Un corpo imponente posato su fragili basi. Praticamente un colosso dai piedi d’argilla che crolla sovente, incute timore ma non possiamo fare altro che amare. E tutti amano Jimmy. Gli americani hanno un’espressione per esprimere questa relazione: someone you can relate to. L’identificazione opera facilmente soprattutto con Tony Soprano, boss mafioso certo ma più in sintonia con la vita vera. DopoI Soprano, James Gandolfini avrà appena il tempo di illustrarsi come attore in qualche film rimarchevole prima di morire a soli 51 anni, il 19 giugno 2013. Una manciata di ruoli in cui conduce sovente una vita da americano medio per eccellenza. Da Romance & Cigarettes a Not Fade Away, passando sempre perI Soprano, i suoi antieroi non hanno niente di straordinario e vivono una vita (quasi) normale.

James Gandolfini e John Magaro in una scena di Not Fade Away

Una vita che non è tutti i giorni rose e fiori, non è tutta bianca o tutta nera, non ha soluzioni semplici a problemi complessi. Un’ordinarietà che permette una grande prossimità con gli spettatori. Con Gandolfini dimentichiamo pop-corn e soda e troviamo un posto nella nozione di antieroe, perché i suoi personaggi, individui che possono ‘fare del male’ per delle buone ragioni oppure no, provocano la nostra moralità e ci costringono a un ruolo attivo. Condividiamo la loro intimità e le loro inquietudini come se si trattasse di un membro della nostra famiglia, di un vicino, come si trattasse di noi. Noi che ci poniamo le stesse domande. Al corpo extra di protagonisti mai banali, l’attore aggiunge un supplemento d’anima. Al di là del reale, c’è un margine in lui che lo spettatore deve percepire. Davanti alla sua evidenza non possiamo fare niente, a parte riconoscerla. Predisposto e concentrato, il suo corpo si muove come per istinto, con discrezione, senza dimostrazione, senza ostentazione, senza eccesso. Gandolfini si installa spontaneamente nel quadro, arriva, sorride ed è finita. Andiamo con lui, dietro a un corpo che non si muove mai troppo. Se Tom Cruise non può smettere di muoversi, Gandolfini dona l’impressione di essere immobile. L’impressione di un’immobilità che non ha niente dell’immobilismo.

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James Gandolfini e Susan Sarandon in Romance & Cigarettes

I suoi personaggi non si spostano mai veramente, non sono avventurieri che corrono ai quattro angoli del mondo ma se è il caso montano in macchina, guidano un motoscafo, sono ‘patentati’ per qualsiasi mezzo (di trasporto). Ma in generale c’è una lentezza (apparente) in Gandolfini, l’attore cerca la sua cifra e la sua ‘posizione’ senza precipitarsi ma rimanendo fermo e mettendo in relazione i movimenti interiori con quelli esteriori. Non corre, non si agita, non si irrigidisce ma si muove su se stesso, sfiora gli altri corpi quando non deve provocarli. Da qui la sua forza d’attrazione, il desiderio materiale che produce e ricerca. Gandolfini è differente da tutti e ha rinnovato completamente l’idea che potevamo farci di un giovane attore. La sua bellezza non è convenzionale e ha liberato il posto (in America, in Europa lo ha già fatto Depardieu) per tutta una generazione di attori che non corrispondono all’immagine di ordinanza.

James Gandolfini

È grasso la maggior parte della sua carriera, ha una calvizie incipiente e un ‘cuore affamato’ ma c’è in lui una seduzione, una forza, uno sguardo, che non fa dimenticare la sua corporeità ma l’incorpora, su cui non ci si può sbagliare. La natura rabelaisiana e il corpo eloquente fanno coesistere una cosa e il suo contrario, il bene e il male, il grande e il piccolo. È quell’oscillazione corporale permanente a fare la sua chance e a farne un attore ipersensibile che ha reso al cinema tutto possibile. James Gandolfini è esorbitante ma la sua esorbitanza è irresistibile. Per la sua taglia il cinema americano avrebbe dovuto inventare un genere nuovo ma ci penseranno la televisione e il visionario David Chase a farne il primo sovrano di un regno nuovo. Togliete James Gandolfini dalla televisione americana e sarà un genere intero a sparire. Perché senza il suo Tony Soprano non avremmo Don Draper (Mad Men) e nemmeno Mr. White (Breaking Bad), non avremmo Jack Bauer (24) o tantomeno Jimmy McNulty (The Wire).

Tony Soprano e la Dottoressa Melfi

Gandolfini è morto senza conoscere la gloria cinematografica ma dopo aver fatto della televisione una forma d’arte, dopo aver cambiato tutto. Con la tensione di un funambolo che avanza sul filo ha inventato una maniera nuova di abitare un ‘film’, di abitarlo col suo colore. Ed è un colore irriducibilmente moderno. Ha creato un personaggio senza equivalenti nella cultura popolare contemporanea, che commette crimini, si espone e si prende il rischio di perdere tutta la simpatia del pubblico. Ha incarnato da solo il disonesto uomo occidentale degli anni 2000. La menzogna e il consumo. Se Coppola mostrava la magnificazione dell’impresa capitalista (Il Padrino), David Chase, lettore di Herbert Marcuse, studia il consumo alienato, quel ‘sempre di più’ americano. Le crisi di panico di Tony sono d’altronde il prezzo da pagare per la sua compulsione, quel desiderio di consumare tutto, le donne come gli amici, l’omicidio crudo come il pasto direttamente in frigo. Gandolfini incarna quel ‘debito’ sovrano declinando una sorta di autenticità bestiale e un calore umano debordante».

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