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Tutti gli uomini del Presidente, il Watergate e la celebrazione del quarto potere

Woodward, Bernstein, Nixon, il set e quell’intuizione di Redford: dietro le quinte di un classico

Tutti gli uomini del Presidente

ROMA – «Tutti i cavalli e tutti gli uomini del re non poterono rimettere insieme Humpty». Da questo verso di una poesia per bambini, Humpty Dumpty, nel 1974, i giornalisti del Washington Post, Bob Woodward e Carl Bernstein, presero ispirazione per il titolo del loro saggio, All the President’s Men, in cui ripercorrevano le tappe dell’inchiesta sul caso Watergate che portò alle dimissioni di Richard Nixon. Un libro nato grazie a Robert Redford che, due anni prima, mentre era impegnato con il tour promozionale de Il candidato, venne a conoscenza dello scandalo che investì la presidenza repubblicana a lui particolarmente avversa. I due giornalisti si misero a lavoro e neanche un mese dopo l’attore ne aveva comprato i diritti per farne un film: Tutti gli uomini del Presidente.

Tutti gli uomini del Presidente
Robert Redford e Dustin Hoffman in una scena di Tutti gli uomini del Presidente

La prima del film diretto da Alan J. Pakula si tenne la sera del 4 aprile 1976 al Teatro Eisenhower del Kennedy Center di Washington. Proprio accanto al complesso del Watergate in cui, quattro anni prima, cinque uomini furono fermati all’interno della sede del Partito democratico facendo scoprire una serie di azioni e intercettazioni illegali da parte dei repubblicani ai danni degli avversari politici. Tutto merito di un pezzo di nastro adesivo scoperto dalla guardia di sicurezza Frank Wills (che nel film interpreta se stesso) lasciato sulla porta che dal parcheggio sotterraneo portava alle scale interne. Ma va detto che Tutti gli uomini del Presidente, più che concentrarsi sui crimini che portarono all’abbandono della Casa Bianca da parte di Nixon, pone l’attenzione sulle tappe giornalistiche che contribuirono a quelle dimissioni.

Sul set: Robert Redford, Dustin Hoffman e il regista Alan J. Pakula.

E se quarantacinque anni dopo il film di Pakula continua ad essere il più grande omaggio del cinema al quarto potere è proprio perché la sceneggiatura (da Oscar) di William Goldman – rivista più volte prima di arrivare allo script finale – non si perde in svolte romanzate ma resta attaccata ai fatti. Come i Bob Woodward e Carl Bernstein di Redford e Hoffman ostinati nella ricerca della verità fatta di appunti, istinto e ricerca delle fonti – su tutte Gola Profonda – grazie a cui scrissero la pagina più importante della storia del giornalismo moderno. Tutti gli uomini del Presidente ci mostra il ruolo cruciale della stampa – di ieri, ma la sua lezione dovrebbe essere applicata anche al nostro presente – quando compie appieno il suo ruolo di cane da guardia della democrazia.

Tutti gli uomini del Presidente
Una scena del film

Ma non solo: perché Tutti gli uomini del Presidente, con il suo stile asciutto e diretto – fu accusato di essere freddo – eppure capace di creare una tensione crescente (nonostante tutti conoscessero il finale della storia) è diventato l’esempio di un cinema civile e di denuncia. Forse il titolo che più di tutti ha saputo raccoglierne l’eredità? Il caso Spotlight. Altro film da Oscar e altro film ispirato a un’indagine (da Pulitzer), quella portata avanti da alcuni giornalisti del Boston Globe sull’arcivescovo Bernard Francis Law, reo di aver coperto casi di molestie e pedofilia in diverse parrocchie. «Ho sempre detto che Tutti gli uomini del presidente è un film violento», dichiarò Robert Redford. «Perché? Perché non vengono sparati colpi, ma le parole sono usate come fossero armi».

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Qui potete ascoltare un brano della colonna sonora di David Shire:

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