ROMA – Il rugby è quello sport che sa cambiare la storia di una nazione. L’unico ad avere anche valenza politica. E non per la sua capacità di distrarre da problemi più grandi, ma perché riesce dove spesso i politici, presi da altri problemi, hanno fallito. Quando si parla di palla ovale, ad esempio, Repubblica d’Irlanda e Ulster non conoscono divisione; giocano insieme in tutte le competizioni e condividono persino lo stesso inno, Ireland’s call. Nel 1995 la nazionale di rugby sudafricana non solo riuscì a vincere i mondiali organizzati in casa, ma lo fece unendo sotto la stessa bandiera afrikaner e neri, seguendo l’esempio e gli insegnamenti del padre della patria, Nelson Mandela. La storia di quell’impresa è stata raccontata prima nel romanzo di John Carlin, Ama il tuo nemico, e poi nel film di Clint Eastwood, Invictus (potete rivederlo su CHILI).
Ma chi sono i veri protagonisti di Invictus? Da un lato François Pienaar (nel film Matt Damon), capitano degli Springboks, squadra simbolo dell’orgoglio bianco e quindi detestati da tutta la popolazione di colore – la maggioranza – dall’altro Nelson Mandela (Morgan Freeman), diventato presidente, al termine di una lunga prigionia, alla caduta del segregazionismo. Grazie alla fine dell’Apartheid, la squadra verdeoro venne riammessa nelle competizioni internazionali dopo dieci anni. Quel Sudafrica era una nazione spaccata, profondamente lacerata dalla sanguinosa faida tra bianchi, discendenti dei coloni olandesi, francesi e tedeschi, e neri. Con grande lungimiranza Mandela pensò che l’unico modo per far comunicare mondi così distanti fosse lo sport, nella fattispecie il rugby. Sfruttò quindi la possibilità di organizzare i mondiali per creare un grande movimento di solidarietà nazionale.
Missione per niente semplice perché – come si vede benissimo in Invictus – dopo anni di regime razzista, quei mondi così distanti non sapevano proprio come comunicare fra di loro. Anzi, il rugby veniva considerato a tutti gli effetti il passatempo dei bianchi, la cartina tornasole di tutte le contraddizioni sociali del Paese. Lo stesso Mandela raccontò di aver tifato contro la nazionale sudafricana durante la giovinezza, perché non si sentiva rappresentato dalla squadra. Ma in quel momento, bisognava andare avanti e fare appello a tutta la forza possibile.
Proprio come fece Madiba che durante la detenzione, per ottenere un fornelletto su cui riscaldare il cibo, riuscì a catturare l’attenzione del Maggiore Van Sittert grazie allo studio meticoloso del rugby e delle cronache sportive dell’epoca. Per farsi seguire, insomma, e ottenere qualcosa che per lui sarebbe stato di vitale importanza, imparò la stessa lingua del suo “nemico”. Una lezione politica altissima, che avrebbe potuto essere replicata in altre circostanze, anche quelle apparentemente più futili come l’organizzazione di un torneo.
Il primo passo lo fece proprio il neo presidente che due mesi dopo l’elezione, con massimo stupore dello stesso capitano, contattò Pienaar al quale rivelò senza mezzi termini la sua volontà: unire il paese attraverso il rugby. Insieme studiarono una strategia. Gli allenamenti della squadra furono aperti al pubblico e i giocatori – 25 bianchi su 26 – impararono a memoria Nkosi Sikelele, l’inno nazionale sudafricano in lingua Xhosa. Tutta la squadra, poi, visitò la cella di Mandela a Robben Island, l’isoletta dove venivano reclusi i prigionieri politici.
Il programma funzionò. Piccoli gesti, forse, che però arrivarono alla gente come un grande invito all’unità. A dispetto di ogni pronostico, la nazionale sudafricana conquistò vittorie su vittorie fino alla sfida finale contro il colosso Nuova Zelanda. In quella giornata, Mandela indossò la maglietta col numero 6 di Pienaar e il suo nome venne chiamato a gran voce da tutti gli spettatori dell’Ellis Park di Johannesburg. La vittoria di uno divenne vittoria di tutti. Invictus – mai vinto – davvero.
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