TORINO – Un invito alla consapevolezza e alla dignità negli ultimi momenti di vita, ma anche (e soprattutto) una riflessione sulla morte come parte del ciclo della vita e all’importanza delle cure palliative. Con In ultimo, Mario Balsamo compie una riflessione intima e potente sulla vita e sulla morte, temi tanto universali quanto sfuggenti. Un documentario che segna il suo ritorno al Torino Film Festival, dove si presenta per la terza volta in concorso dopo la sorpresa di Noi non siamo come James Bond, nel 2012, e di Mia madre fa l’attrice, 2015. Qui il regista conferma la sua abilità nel raccontare storie profondamente umane con una sensibilità che non sfocia mai nel morboso o nel didascalico, ma anzi offre un’analisi empatica e riflessiva. Con una tecnica invisibile ma perfetta, in cui ogni inquadratura, ogni luce, ogni fotogramma è studiato. Sia nelle scene fisse sia con la camera a mano, Balsamo conduce lo spettatore con lucida e chiara idea di ciò che serve.

«La scelta della color è stata una scelta estrema», ci spiega il regista, «ma ne sono
soddisfatto. Abbiamo lavorato per differenziare le parti interne da quelle esterne. All’interno dell’Hospice abbiamo portato al massimo la sovraesposizione, perché creava una sorta di tempo sospeso. Fuori abbiamo dato più spazio ai colori e alla loro forma, alla realtà esterna». Protagonista è il dottor Claudio Ritossa, il medico palliativista dell’Hospice Anemos di Torino che, con dedizione e discrezione, accompagna i suoi pazienti nel tratto finale della loro esistenza. Empatico e pacato, Ritossa riesce a rendere la morte non un tabù, ma un passaggio naturale, dignitoso, evolutivo. Non è solo la sua professionalità, ma anche una passione per la vita che si esprime nella cura e nel rispetto del corpo e dello spirito dei malati. Quest’ultimo lo vediamo nell’intreccio tra la pratica palliativa e l’amore del dottore per le piante, a cui dedica attenzione nel corso del film.

Qui Balsamo va stretto sui primi piani, sui dettagli, con la camera a mano, quasi a voler condurre lo spettatore in un’atmosfera più intima. Questo diventa una metafora: le piante, così come le persone, sono soggette al ciclo naturale della nascita e della morte, ma entrambe possono essere trattate con la stessa cura, attenzione e rispetto. Questa connessione tra la vita vegetale e quella umana, più che una semplice analogia, si fa simbolo di un percorso di consapevolezza e forse di serenità. C’è uno spaccato autentico e commovente, c’è l’inevitabile scorrere del tempo, c’è l’angoscia, ma c’è – mai come in questo caso – la grazia che può emergere nei momenti di maggiore vulnerabilità. Nell’interazione tra il medico e i suoi pazienti non è mai esibita una qualche forma di pietismo, piuttosto una danza di complicità e accettazione, dove le parole non sempre sono necessarie per farsi comprendere. Il silenzio (scelto, voluto e coraggiosamente messo in campo da Balsamo) ha infatti un valore inestimabile, e il film lo sottolinea specialmente nei primi 30 minuti.

L’errore in cui però non bisogna scivolare mentre si guardano le immagini è considerare In ultimo un documentario sulla morte. Lo è anche, sicuramente e ovviamente, ma qui Balsamo riesce a celebrare soprattutto la dignità del vivere, anche nei suoi ultimi istanti, grazie anche all’importanza delle cure palliative. Ed è anche un lavoro che rende un profondo omaggio a chi lavora nell’ombra, a chi dedica la propria esistenza ad alleviare un dolore, una conclusione, ma anche una testimonianza del coraggio di chi è chiamato a fare i conti con la propria finitezza. In una società e in una realtà esterna che spesso preferisce ignorare la morte – e bisognerebbe indagare nell’io dell’oggi su questo – In ultimo obbliga lo spettatore a guardarla in faccia…
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