MILANO – Intollerante, maleducato, competitivo, gradasso, omofobo e maschilista. Con questi pochi complimenti si potrebbe concludere la descrizione del ranchero Phil Burbank, il personaggio attorno a cui ruota l’ultimo film di Jane Campion, interpretato da un grande Benedict Cumberbatch che, pare davvero, non si sia lavato per settimane così da entrare alla perfezione nel personaggio. Insignito del Leone d’Argento per la Miglior Regia alla Mostra di Venezia, vincitore dell’Oscar 2022 alla Miglior Regia e di tre Golden Globe (Miglior film drammatico, Miglior regia, Miglior attore non protagonista), Il potere del cane, tratto dall’omonimo romanzo di Thomas Savage (1967, in Italia edito da Neri Pozza), è un western crepuscolare che giustappone sconfinate praterie e colline in richiamo ai classici del genere a un’introspezione che lacera i personaggi tra interiora bovine e squisiti design d’interni Anni Venti.
Siamo nel 1925, in Montana, dove Phil e il fratello George (Jesse Plemons, poco celebrato, sempre bravissimo) portano avanti il ranch di famiglia. La loro casa, eredità dell’espansione economica della Gilded Age, è più che confortevole, spaziosa e arredata con un certo sfarzo, ma il rapporto tra i due fratelli è conflittuale: Phil ama il lavoro duro, gli spazi aperti e si fa portatore orgoglioso di una morale naturale tramandata da generazioni di cowboys; George, al contrario, veste abiti neri su misura e sembra più interessato a cercar moglie e intrecciare relazioni borghesi con la classe dirigente locale, piuttosto che a seguire le orme del vecchio mandriano Bronco Henry, un mitologico ‘vero uomo del west‘ che Phil rievoca con trasporto, mentre George – e anche in questo sono diversi – sembra del tutto indifferente al ricordo di un signore che, in fondo, gli ha solo dato lezioni di cavallo da ragazzo.
Ad un certo punto, con i suoi modi garbati, George riuscirà ad avvicinare e infine sposare la padrona di locanda Rose (una davvero ottima Kirsten Dunst), che finirà per trasferirsi nella magione dei Burbank con il figlio Peter (Kodi Smith-McPhee), quarto ed ultimo personaggio chiave. La dinamica è di natura tragica. Phil, il bullo, non riesce ad accettare che il fratello si sia sposato e per di più non tollera la presenza dei due inquilini, che non considera degni di condividere il suo tetto: Rose perché è una donna, e in quanto tale la considera per natura inaffidabile, incapace e subdolamente interessata alle ricchezze della famiglia; Peter, invece, perché è un ragazzo che oggi definiremmo queer, cioè non perfettamente conforme agli standard estetici e caratteriali richiesti dal tempo in cui vive (non è muscoloso né prestante, è studioso e silenzioso, e sembra dotato di una sensibilità che proprio non si addice al prototipo del mandriano maschio, bianco e aspirante capobranco).
Il titolo del film è la chiave di lettura di tutta la vicenda. “Potere del cane” è infatti una espressione tratta da uno dei passaggi biblici più citati tra i cosiddetti “salmi di lamento individuale” (Salmi 22:20), in cui il sofferente fa appello a Dio, supplicandolo di liberarlo da un insuperabile e insopportabile dolore. Ma se i protagonisti della Bibbia sono impotenti di fronte all’arbitrio divino, nel film è proprio il più insospettabile tra i personaggi a dare una svolta, fornendoci una nota di ottimismo. Ebbene, da cosa si cerca la liberazione? Di che tipo di sofferenza si narra? Per rispondere a queste domande dobbiamo ricordarci che il film è adattamento di un libro del 1967, anno in cui il western classico aveva già subito la sua demolizione – tra i rispettosi colpi di martello di Howard Hawks (Un dollaro d’onore e El Dorado) e le irreversibili accettate di Sergio Leone – e fuori dai cinema stavano maturando le generazioni che avrebbero compiuto il parricidio culturale e valoriale del 1968.
La lotta che vediamo consumarsi tra Phil e il resto del mondo non è dunque di natura economico-sociale. Non ci sono ricchi contro poveri, campagne contro città, lavoratori contro padroni o agricoltori contro allevatori. La posta in gioco è di tutt’altro tipo e vede contrapporsi due modelli di vita opposti, in uno scontro tra generazioni, generi e antropologie differenti. Da un lato c’è chi (Phil) interpreta la vita come una fiera ripetizione della tradizione: in quest’ottica, per mezzo della completa immedesimazione in un ruolo sociale pre-esistente, ciascuno troverebbe la sua dimensione adeguandosi e interpretando quella parte. Dall’altro, invece, chi (Rose e Peter) interpreta la crescita, il progresso e la scoperta del sé come aspetti di una libertà fondata sull’autodeterminazione, la comprensione graduale e lo sviluppo spontaneo delle personalità.
Sono temi che, ovviamente, suonano anacronistici se inseriti nel contesto del Montana del 1925. Eppure, ancora una volta, il western si dimostra genere perfetto per parlare dei massimi sistemi, specie quando si tratta di stilizzare e simbolizzare. E così vediamo che Peter e Rose sono molto credibili nel ruolo dei sofferenti che vogliono liberarsi dal giogo di Phil, il quale è invece la costrizione fatta persona, una sorta di cammello che si nutre di catene. L’uomo impone innanzitutto a se stesso (per lo meno in pubblico) i codici che crede di dover rispettare e pretende che anche gli altri si allineino ai suoi canoni, pena la persecuzione, il sarcasmo, la pubblica derisione e l’imposizione della pressione psicologica di chi ha deciso di renderti la vita impossibile. Rose, impotente, si darà all’alcol, mentre il giovane Peter – solo apparentemente fragile, mansueto e dissociato – userà tutta la sua intelligenza e autocontrollo per provare a risolvere la situazione.
Bellissimo il finale (anche se i meno attenti dovranno rivederlo un paio di volte per capire cosa sia successo), che ci fa tirare le fila del discorso e ci fa comprendere che il cane, il potere da cui liberarsi, è proprio Phil, non come individuo, ma come portatore di un certo sistema di valori (quello del classico west), e come suo rappresentante ultimo. Anzi, da un certo punto di vista è lo stesso Phil ad essere liberato da se stesso e dal peso di un personaggio che sta interpretando con abnegazione, ma che – noi spettatori lo sappiamo – lo sta opprimendo. Forse anche per questo nella costruzione della soluzione finale manca l’estetica della vendetta, mai neanche per un istante sentimento-motore della narrazione: con la stessa disinvoltura con cui le automobili e i treni hanno sostituito i cavalli, il West, insieme con il suo pesante bagaglio valoriale, muore al crepuscolo, senza clamori o sensazionalismi e la sua dipartita viene accettata e interiorizzata come fosse un fatto naturale, magari un po’ singolare. Tra un vago e leggero stupore di chi lo credeva invincibile e un certo sollevamento per il fatto di essersene liberati…
- INTERVISTA | Benedict Cumberbatch e Il Potere del Cane: l’intervista
- WESTCORN | Qui la nostra sezione dedicata ai western
Qui potete vedere il trailer de Il Potere del Cane:
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