ROMA – Un dono del cielo. Volessimo provare a definire con un’unica frase la produzione degli anni Settanta di Robert Altman, sarebbe certamente questa. Una delle più pure espressioni della creatività della New Hollywood caratterizzata da processi di destrutturazione dei topos del genere di riferimento attraverso solidi racconti. Da MASH a Quintet passando per I Compari, Images, California Poker, Nashville, Buffalo Bill e gli indiani, 3 donne e Un matrimonio, gli autori in grado di inanellare un filotto di opere di così alto livello si contano davvero sulle dita di una mano. Nel pieno di questo fiume in piena creativo, siamo nel 1973, c’è Il lungo addio (lo trovate in streaming su Prime Video), una delle opere più sovversive di quella decade, con cui Altman si misurò con un autentico mostro sacro della storia della letteratura americana: Raymond Chandler.
Un adattamento dalla gestazione lunghissima e travagliata, ma soprattutto desiderata. All’indomani della morte di Chandler nel 1959 infatti, da trasporre al cinema rimasero soltanto Playback e proprio Il lungo addio, per cui i produttori Elliott Kastner e Jerry Gerswin acquisirono dagli eredi di Chandler i diritti di utilizzazione economica poco dopo, nel 1965. Due anni dopo furono ceduti a Gabriel Katzka che, per via del suo essere sequel diretto de La sorellina – da lui adattato al cinema nel 1969 sotto il titolo de L’investigatore Marlowe con James Garner come protagonista, Paul Bogart alla regia e Stirling Silliphant alla sceneggiatura – ne annunciò l’immediata realizzazione. Era già tutto pronto, Silliphant buttò giù uno script coerente con il predecessore, Garner si disse entusiasta all’idea di tornare come Marlowe, ma poi ci fu un’imprevisto.
La MGM – Metro-Goldwyn-Mayer lasciò scadere la sua opzione rendendo inutili gli sforzi di Katzka. Messo con le spalle al muro, cedette nuovamente i diritti a Elliott Kastner che, in coppia con Jerry Bick, stipulò un accordo di massima con la United Artists per la distribuzione in sala. Commissionarono così a Leigh Brackett – che di Kastner fu una cliente nel suo periodo da agente di spettacolo – lo script. Una scelta tutt’altro che casuale visto che era stata la sua penna nel 1946 a dar forma ad un altro cult: Il grande sonno. Forse il più grande adattamento chandleriano di sempre con Howard Hawks alla regia e con protagonisti Lauren Bacall e – soprattutto – Mister Humphrey Bogart come volto e corpo di un Marlowe semplicemente perfetto. Tutto questo ovviamente non aiutò però Il lungo addio.
«Quindi, hai un accordo con la United Artists che a loro volta avevano un impegno con Elliott Gould, quindi o prendi Gould o non fai il film. Solo che Gould non era esattamente la mia idea di Marlowe, ma ok, ci siamo. Riguardo la storia, il tempo era passato: erano passati più di vent’anni da quando il romanzo era stato scritto e l’investigatore privato era diventato ormai un cliché. Se avessi Bogart alla stessa che aveva quando fece Il grande sonno, non farebbe mai Il lungo addio allo stesso modo. Altro problema: Il lungo addio è il romanzo più lungo di Chandler, tremendamente involuto e contorto e pieno di cliché. Se lo facessimo nel modo in cui l’ha scritto ne verrebbe fuori un film di cinque ore» commentò al riguardo la Brackett.
Ora, non che si possa parlare de Il lungo addio come di un romanzo fallimentare, vincitore dell’Edgar Award nel 1955, dalla prosa psicologica e umoristica e con un Marlowe inedito, tanto crepuscolare, cinico e disilluso, quanto romantico, umano e malinconico («L’alcol è come l’amore: il primo bacio è magico, il secondo è intimo, il terzo è routine» una delle frasi celebri), ma l’intreccio, per com’era strutturato nel romanzo, non avrebbe funzionato appieno in un adattamento cinematografico. La Brackett adattò lo script in modo molto libero, sia in termini di svolte narrative che di rimescolamenti caratteriali che, non ultimo, di personaggi presenti nel romanzo e qui nemmeno mai menzionati. Parallelamente, per la regia Kastner e Bick si mossero individuando in quel Brian G. Hutton fresco dell’accoppiata Dove osano le aquile/I guerrieri, un buon profilo.
Dopo la lettura dello script però, si tirò indietro non riuscendo a visualizzarlo. In seconda battuta proprio Hawks che, nonostante la presenza di quella stessa Brackett con cui collaborò – oltre che per Il grande sonno – in Un dollaro d’onore, Hatari! e Rio Lobo, rifiutò per la semplice ragione che senza Bogie avrebbe avuto poco senso un tuffo nel mondo chandleriano. Non ultimo l’emergente Peter Bogdanovich che dopo quei gioiellini di Bersagli e L’ultimo spettacolo era finito sul radar di tutte le majors hollywoodiane. Rifiutò pure lui, impegnato com’era nella pre-produzione di Ma papà ti manda sola?, ma non senza aiutare Kastner e Bick a trovare il giusto volto registico per Il lungo addio. Ragionando quasi da produttore associato indicò loro quel Robert Altman fresco del successo de I Compari.
Kastner e Bick gli fecero avere lo script in Irlanda, nel pieno della lavorazione di Images. Fu subito impressionato dalle idee su carta della Brackett, tanto da definire il film come: «Il lungo addio? Una satira malinconica». Lei lo raggiunse sul set e – come riportato nel suo libro di memorie – passarono molto tempo a parlare della trama e dei suoi sviluppi: «Ci incontrammo intorno alle dieci del mattino e chiacchierammo tutto il giorno. Tornata in albergo ho battuto tutti gli appunti per poi tornare il giorno dopo. In una settimana fu subito tutto chiaro, fu davvero un piacere lavorare con Robert, aveva una mente molto acuta per la storia». Una frase, quest’ultima, figlia anche dell’intuizione creativa di Altman che scelse di approcciarsi a Il lungo addio in modo decisamente insolito.
Piuttosto che dedicarsi alla lettura dell’opera originale, scelse di buttarsi a capofitto nelle profondità di Raymond Chandler Speaking. Una raccolta di lettere e saggi scritte dall’autore, in modo da replicarne in formato filmico – più che le atmosfere e il tono hardboiled – la voce, lo stile, l’essenza che traspare da quelle pagine. D’altra parte, in linea con il revisionismo altmaniano e del suo cinema dalla chiave di lettura intelligente, originale e irripetibile, l’intento del suo Il lungo addio non era tanto quello di riproporre Marlowe e la mitologia chandleriana in forma di remake, quanto: «Di attirare l’attenzione del pubblico e ricordare loro che, nonostante Marlowe, c’è un mondo reale là fuori, ed è un mondo violento. I fan di Chandler mi odieranno a morte, lo so già, ma non me ne frega niente».
A partire dalla scelta del volto principe, con quel Elliott Gould voluto fortemente da Altman e dall’allora presidente della United Artists, David Picker, che superò in volata Robert Mitchum (che un paio d’anni dopo sarebbe stato il protagonista di Marlowe, il poliziotto privato e Marlowe indaga), Lee Marvin e un clamoroso Walter Matthau che a detta di Kastner non accettò il ruolo perché: «Era spaventato all’idea, si immaginava come protagonista ma non ha voluto mai farsi avanti per diventarlo». Una scelta insolita quindi, ma anche di profonda rottura con la lunga e gloriosa tradizione del cinema noir, che fece capire immediatamente al grande pubblico che tipo di film sarebbe stato Il lungo addio. Un adattamento ironico, a partire proprio dalla dimensione caratteriale-narrativa di Marlowe: Altman non considerò mai il suo Marlowe come il Marlowe letterario di Chandler.
Nonostante i titoli di coda dicano Philip Marlowe accanto a quello del suo interprete, Elliott Gould, nello script originale è riportato come Rip Van Marlowe. Come se il Marlowe letterario degli anni Cinquanta avesse dormito per vent’anni e fosse stato trapiantato nella Los Angeles dei primi anni Settanta. Una Los Angeles inedita, poco brillante e scialba, fotografata dal DoP Viktor Zsigmond approssimando il più possibile l’occhio umano smorzando i neri e ammorbidendo i colori intensi di un debole pastello dove, a detta di Altman: «Marlowe vaga cercando di invocare la morale di un’era precedente». Attorno a lui un Il lungo addio neo-noir ferocissimo, ironico, dissacrante, che apre raccontandoci di cibo per gatti e di una visita in un supermercato alle tre di notte, per poi incupirsi sempre di più nella sua torbida discesa negli inferi.
Sulle continue e ossessive variazioni del tema musicale di John Williams (The Long Goodbye) Altman costruisce attraverso intuizioni registiche di raro ingegno un intreccio noir solidissimo fatto di depistaggi continui, soluzioni improbabili e una parata continua di topos caratteriali e culturali del noir, ricalibrati e rilocalizzati in funzione del suo cinema. C’è Roger Wade (uno Sterling Hayden realmente confuso e imprevedibile, perennemente ubriaco, consumatore assiduo di marijuana), scrittore hemingwayano in preda a un blocco dello scrittore perenne, Eileen Wade (Nina Van Pallandt), sua moglie, femme fatale tutt’altro che seducente e dai modi affabili e dolci, Marty Augustine (il regista e interprete Mark Rydell), criminale che parla d’amore ma talmente deviante che non esita a schiaffare una bottiglia di Coca-Cola in faccia alla sua fidanzata. Non ultimo Terry Lennox (Jim Bouton), l’amico di Marlowe, l’origine di tutto.
Il passaggio in aeroporto, l’omicidio della moglie, il presunto suicidio, l’accusa di favoreggiamento che cambia per sempre la giornata di Marlowe, il triangolo amoroso, tutto porta infine al famigerato climax de Il lungo addio su cui la Brackett si espresse così: «Il finale originale, quello del romanzo, era piuttosto inconcludente e non piaceva né a me né a Robert, abbiamo quindi pensato di discostarci e vedere cosa sarebbe successo». Nella visione di Chandler la resa dei conti tra Lennox e Marlowe si traduce in una rivelazione, un’amicizia spezzata e un freddo dirsi addio. Altman andò oltre, configurando un finale talmente differente e sovversivo che, al momento della firma del contratto che lo avrebbe visto dirigere il film, pretese una clausola che gli garantisse il Director’s Cut in modo da preservarlo da eventuali modifiche in post-produzione.
Perché qui Marlowe – il Marlowe fumatore di Altman che nella California salutista si accende una sigaretta a ogni scena e risponde a tutto con «È ok per me» – svela l’inganno, trova Lennox che nell’ostentare la superiorità delle sue manipolazioni gli dice «Dannato Marlowe, perdi sempre», lo fredda con una revolverata secca e precisa, per poi estrarre la sua armonica andandosene a passeggio. Manco a dirlo la critica dell’epoca massacrò Il lungo addio al punto da parlarne come un inganno filmico. Al box-office incasserà 959.000 dollari a fronte di un budget di quasi il doppio (poco più di un milione e mezzo di dollari), un disastro in termini commerciali, specie perché il film fu pubblicizzato dalla United Artists come un poliziesco puro e crudo.
La cosa non fece piacere ad Altman che – oltre a difendere l’interpretazione di Gould a spada tratta («Ho pensato che avesse fatto un ottimo lavoro, Elliott non è un duro, il suo è un viso gentile, i suoi occhi sono gentili, e non ha quel tocco di crudeltà che associ spesso a questi personaggi») – all’indomani di quel 7 marzo 1973 che vide Il lungo addio distribuito in sala, piombò nell’ufficio di David Picker parlandogli chiaro e tondo: «Non puoi farlo, non c’è da stupirsi che stia fallendo, sta dando l’impressione sbagliata. Lo fai sembrare un thriller, ma non lo è, è satira». Soltanto Pauline Kael, nella sua recensione sul The New Yorker, comprese l’intuizione artistica al centro de Il lungo addio parlandone come: «Una poesia da favola autoironica su Chandler e tutto il cinema noir».
Eppure, nonostante fosse stato poco valorizzato dal pubblico del tempo, Il lungo addio – oggi lo trovate in streaming a noleggio su Prime Video e Apple TV – incise e non poco sul suo genere di riferimento. Quel neo-noir che negli anni Settanta del cinema moderno americano esplose del tutto dando il definitivo là a una stagione di revival per l’hardboiled inaugurata nel 1971 con Sequestro pericoloso e proseguita poi con Provaci ancora Sam, Chinatown, L’uccello tutto nero, Una valigia piena di dollari, Invito a cena con delitto, Marlowe, il poliziotto privato, A proposito di omicidi… e Marlowe indaga. Non ultimi il curioso Il detective con la faccia di Bogart e Il mistero del cadavere scomparso che negli anni Ottanta, assieme a Il grande inganno, salutarono il genere celebrandolo degnamente. Per Altman la conferma di un’opera fraintesa, più forte oggi che non nella sua epoca di riferimento, di grande coraggio artistico.
Perché in quella decade, tra MASH, I Compari, Il lungo addio e Buffalo Bill e gli indiani – e questo escludendo Nashville narrazione totalizzante e universale che spazzò del tutto l’illusione del Sogno Americano raccontando della corruzione d’animo degli uomini – Altman fece suoi i war-movie, il western e il noir, i pilastri del cinema d’intrattenimento, rimescolandone le inerzie e piacimento. Nel caso de Il lungo addio però, complice la non inusuale scelta di parole del titolo, l’odissea di un Marlowe scanzonato e crepuscolare, continuamente trascinato dagli eventi, si presta a una duplice chiave di lettura. Da una parte, alla maniera di Chandler, l’addio a Terry Lennox e alla sua amicizia, dall’altra, alla maniera di Altman, l’addio a un intero genere e a un modo di fare cinema che solo la New Hollywood poté concepire, visualizzare e infine creare. Nel mezzo un’opera dal valore inestimabile.
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Qui sotto potete vedere il trailer del film:
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