MILANO – Il conformismo secondo Alberto Moravia. Il conformismo secondo Bernardo Bertolucci. Declinazione per immagini di uno dei libri più forti dello scrittore, diventate grandissimo cinema – e come poteva essere altrimenti – nel 1970, nell’omonimo film del maestro che poi sarebbe anche andato a conquistare Hollywood. Solo due anni più tardi, Bertolucci, firmerà poi la regia della sua opera (forse) più rappresentativa e celebre, Ultimo Tango a Parigi, ma intanto in quel 1970 si sposta nella Roma fascistissima del 1938, affidando ne il suo Il Conformista la parte di Marcello Clerici, una spia del regime, alla faccia pulita di Jean-Louis Trintignant che già aveva lavorato in Italia con Sergio Corbucci e Pasquale Festa Campanile l’anno prima.

Insieme a Trintignant, nel cast de Il Conformista (disponibile su Minerva Classic che trovate sia su Prime Video che su The Film Club), ecco Stefania Sandrelli, Gastone Moschin e Dominique Sanda. E, come si faceva una volta, vanno ricordate anche le maestranze artigianali che hanno reso gigantesco il cinema italiano: Aldo Lado, aiuto regista, Vittorio Storaro alla fotografia (e che fotografia, quasi una mostra), il futuro premio Oscar (per L’Ultimo Imperatore, appunto) Ferdinando Scarfiotti alla scenografia, e Georges Delerue alla colonna sonora – retaggio del cinema dell’amico Godard – palpitante nei momenti di maggiore tensione, soave invece quando accompagna le scene più raffinate.

Così, Il Conformista, è prima di tutto un film che affonda le sue radici nel clima di terrore generalizzato che il fascismo esercitava sui dissidenti, perpetrando violenze inumane e restrittive di tutte le libertà. Ma lo sguardo di Bertolucci è rivolto soprattutto al conformismo becero di cui è vittima la borghesia. Quella borghesia che ora è fascista, ma in futuro potrà saltare al di là della barricata senza scrupoli nè remore. Nella scena più poetica della pellicola Clerici e il professor Quadri – vittima designata del Duce in quanto antifascista – ricordano il mito della caverna di Platone, in cui gli uomini prigionieri sono in grado solo di scorgere le ombre proiettate sul muro dinanzi alla grotta, ma non le persone che transitano fuori. La prima bozze di cinema, embrionale e presitorica, ritrovata in una delle pellicole chiave del Novecento.

E poi ecco la metafora e l’invettiva cosciente che Bertolucci scaglia contro l’impossibilità di vedere la realtà della borghesia stessa. Lo stile di Bertolucci è rarefatto, fa sfoggio di una serie di salti temporali incastonati come un orologio svizzero, grazie al formidabile montaggio di un altro artigiano, Franco Arcalli. Vi è un’attenzione maniacale alla simmetria di ogni singolo fotogramma, levigato con minuzia, attenzione, cura, fino al raggiungimento della perfezione. Il finale, poi, è di una potenza dirompente: il tassello mancante per chiudere il percorso di riflessione sulla società, sulle debolezze umane, di cui Marcello Clerici è squallido portatore. Il Conformista: vedi alla voce capolavoro.
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