MILANO – A Cannes venne presentato a maggio, in America arrivò poi d’estate, in Italia in autunno: Fa’ la Cosa Giusta di Spike Lee a Cannes venne presentato il 19 maggio del 1989, a New York uscì al cinema il 30 luglio. E nel film, la temperatura all’incrocio della 173 Stuyvesant Avenue, angolo nordest di Quincy Street, nel cuore di Brooklyn (o Crooklyn, se volete…), era alquanto bollente. Una pizzeria di italo-americani, gli ispanici chiacchieroni, l’odore speziato che arriva dalla cucine dei cubani. I poliziotti bianchi che ogni tanto alzano un po’ troppo il manganello (e siamo ancora lì), la comunità nera fatta di tanti, memorabili personaggi che, come in un palcoscenico senza backstage, passavano nelle inquadrature rivoluzionarie di Spike Lee. Ogni tanto guardando in camera e parlando direttamente allo spettatore.
Smiley con le preghiere per Malcolm X e per il Reverendo Martin Luther King; il Sindaco con il completo stropicciato; Mother Sister, sempre in finestra; Radio Raheem, che dal suo enorme stereo pompava i Public Enemy. Senza dimenticare Buggin Out, che voleva solo una foto di Michael Jordan attaccata alla parete della pizzeria di Sal e dei due figli, Pino e Vito (Danny Aiello, John Turturro e Richard Edson). In mezzo questo via vai di popolo, Mookie (lo stesso Lee), che non ha mai consegnato una pizza fredda. Mentre la soundtrack alterna Teddy Riley al jazz del grande Bill Lee (ritrovato oggi nella serie Netflix di Lee, She Gotta to Have It, tratta da Lola Darling e con i titoli d’apertura più belli del piccolo schermo) succede poco, quasi niente, ma ogni attimo anticipa i minuti finali.
Ma anche (e soprattutto) di storia sociale, politica e culturale. Pensare che fu scritto da Lee su un diario nel 1988, prendendo spunto da una rivolta avvenuta ad Harlem negli Anni Quaranta. «Penso che i pericoli di quel film siano più vivi oggi di quanto non lo fossero nel 1989», ha dichiarato il direttore alla fotografia Ernest Dickerson. Infatti, il film di Lee – in grado di raccontare gli angoli di New York come nessun altro – fin dal passaggio a Cannes fu avvolto praticamente subito da un rovente dibattito. Provocatorio, eccessivamente facinoroso, insurrezionale e troppo di parte. E invece no, perché lo spaccato di vita narrato da Lee, non ha né buoni né cattivi, ne vincitori né tantomeno vinti.
Ci sono i neri, ci sono i bianchi. Ma alla fine, si finisce per essere tutti contro tutti, anche se è lo sbaglio il vero cattivo. Perché la violenza, ci dice Spike Lee, porta solo violenza. La divisione, frutto dell’intolleranza, andrebbe combattuta in un altro modo, pur avendo il sacrosanto diritto di difesa. Nonostante la Paramount – prima che il copione arrivasse alla Universal – volesse un abbraccio finale tra Sal e Mookie (la risposta di Lee alla pretesa? «I said, “Hell, no fucking way!”»), Fa’ la Cosa Giusta si potrebbe quasi considerare uno dei film più pacifisti degli Anni Novanta, anticipando di trent’anni una (nuova) ondata di odio e di violenza, capace di toccare gli Stati Uniti da Est ad Ovest.
La pizzeria di Sal, microcosmo sudato e unto, è Charlottesville, è Dallas, è Atlanta, è Baton Rouge. È la scintilla che fa scoppiare una bomba, mentre la vita continua a scorrere e lo speaker Mister Señor Love Daddy ringrazia Miles Davis e Aretha Franklin per averci regalato un po’ di bellezza. Nonostante la violenza continui imperterrita e i neri d’America continuano ad essere uccisi, da George Floyd a Travyon Martin. Allora, oltre i tecnicismi e l’estetica di altissima qualità, Do the Right Thing, nel corso degli anni, è diventato un mantra da ripetere, con un titolo che racchiude il senso generale delle cose. Più di un inno nazionale. E sì, anche più di una dichiarazione d’indipendenza…
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