MILANO – Per la nostra rubrica WestCorn questa volta torniamo nel 1954 con un film poco conosciuto: Four Guns On The Border, in italiano I desperados della frontiera di Richard Carlson, che uscì in sala nel cuore del decennio d’oro del western. Sono passati solo due anni da Mezzogiorno di fuoco, ne mancano ancora cinque perché veda la luce Un dollaro d’onore (di cui parlammo già qui). In quegli anni il cinema sta iniziando la sua lotta per competere con la TV e lo fa da un lato puntando sulla specificità dell’esperienza del grande schermo e il suo potenziale carattere colossale (ricordiamo ad esempio l’invenzione del cinemascope, peraltro funzionale ai paesaggi e alle forme del western); dall’altro cercando di introdurre nuove tipologie di narrazione – anche all’interno dei vecchi generi- per tentare di incontrare il nuovo gusto delle crescenti ed esigenti giovani masse del secondo Dopoguerra.
La conseguenza di tutto questo, è l’enorme crescita delle produzioni di genere negli Anni ’50, nei quali si alternano capolavori come Sentieri selvaggi e film minori, spesso poi finiti nel dimenticatoio per sovrabbondanza di materiale, tra cui però si trovano anche pellicole buone e meritevoli menzione e commento. Esattamente come nel caso di questo film di Carlson, che per fortuna gli amici del Festival del Cinema di Torino ci hanno invitato a recuperare tra le proposte della categoria denominata – guarda caso – Mezzogiorno di fuoco. Si tratta di un western onesto, con un cast più che dignitoso, una trama semplice ma solidamente concepita e una nota erotico-romantica che ci permette di leggere il film con una luce particolare, contribuendo a renderlo più curioso e intrigante di quanto si possa pensare.
Le quattro pistole del titolo fanno riferimento al gruppo di fuorilegge guidato da Cully (Rory Calhoun) e impegnato in varie rapine di piccolo cabotaggio nell’Arizona. Mascalzoni, certo, ma i nostri disperati non sono violenti o assassini senza scrupoli (siamo ancora lontano dagli Anni ’70 e da Il mucchio selvaggio), bensì quattro furbacchioni che cercano di vivere di espedienti e cavarsela, tra un colpo mancato e una cavalcata, tutto in un clima cameratesco. Un giorno il capo carismatico Cully ha un intuizione geniale per un nuovo (e forse definitivo) colpo nella città di Cholla, in viaggio verso la quale i quattro incontrano la giovane e fisicamente prorompente Lolly (Coleen Miller), insieme con il vecchio padre Bhumer (il tre volte premio Oscar, Walter Brennan). Segnaliamo che colpo in questione è geniale, ma ve ne lasciamo scoprire i dettagli con la visione del film.
Le ambientazioni sono quelle calde, sudate e pre-messicane che vedremo sempre più spesso negli anni successivi ai Cinquanta, ma nella narrazione ci troviamo già nel 1881, un tardo West in cui l’epica della frontiera sta scemando e vede fiorire numerose città (come quella in cui va a scuola Lolly in Kansas) che ridimensionano l’immaginario West dagli sconfinati e sconosciuti orizzonti di frontiera ai limitati e ormai noti spazi vuoti tra un presidio di civiltà e l’altro, contribuendo così a cambiare anche il punto di vista sui pistoleri. Non più liberatori-conquistatori e difensori degli ultimi di fronte alle insidie delle stato di natura, ma dei poco di buono, residuo indegno dei grandi eroi del recente passato e in grado solo di combinare guai e importunare la brava gente (e questo è esattamente quello che pensa il padre di Lolly, pistolero emerito, di Cully e i suoi).
Ed è proprio in quei non-luoghi che viaggiatori e birbanti di vario genere si destreggiano subendo la contrapposizione di eccessi-contrari, una dinamica che vede opporsi continuamente caldo torrido e tempesta, legge e fuorilegge, maschi alfa e donne indifese, indiani e cowboy. E gli indiani, appunto, rappresentano ancora il pericolo maggiormente temuto e un nemico che risulta de-personalizzato: fanno parte degli imprevisti e degli eccessi naturali che possono avvenire durante un viaggio, e anche se i più saggi sanno ormai leggere i loro segnali di fumo (come il vecchio Bhumer) i nativi vengono considerati alla stregua di animali da lasciare in pace, più che di esseri umani con cui è possibile avere un dialogo, gente che mai capirà e accetterà il modello civile. E in questo contesto, anche nel confronto con gli indiani che ancora una volta chiede da che parte stare, la protagonista femminile, con la sua sola presenza, svolge un ruolo decisivo: seduce il bandito, lo attrae facendo leva sui suoi istinti più umani e irrazionali, lo travolge di passione strappandolo dalle sue preoccupazioni volgarmente quotidiane.
E come la passione attira verso il mondo sensibile il cavallo nero del Fedro platonico, e come, ancora, l’amore gioca il suo ruolo nel neoplatonismo rinascimentale (tra Botticelli e Marsilio Ficino), Lolly diventa occasione di redenzione per lo sbandato Cully. Attratto dal corpo, il pistolero viene trascinato in città, dove ha modo di conoscere l’ordine, la civiltà, la stabilità e lì è spronato a mettere da parte l’orgoglio e lasciarsi alla spalle le sciocche incertezze del vecchio mondo, in cambio di una libertà controllata. La donna non è ancora quella emancipata e libera dei successivi decenni; è incapace di prendere scelte autonome, resta solo un oggetto di interesse estetico-passionale, che però diventa strumento per la liberazione dell’uomo, che attraverso di lei supera lo stadio animale ed entra nella maturità. Non servono più coraggio e sicurezza, ora è tempo dei valori civile, perché non si tratta più di conquistare la pace e la libertà con la forza, ma di abitarle e realizzarle attraverso le rinunce proprie della convivenza donata dai vecchi eroi…
- WEST CORN | Mezzogiorno di fuoco, le memorie di un capolavoro
- AUDIO | Qui per il tema principale del film:
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