MILANO – Politico e poetico, rigido ma sognatore, duro e tenero nello stesso istante. Dici Gian Maria Volonté e oltre al nome salgono agli occhi frammenti e istanti, ma anche parole e sguardi, lacrime, prese di posizione e cinema purissimo. Per qualcuno la vera domanda da porsi oggi è cosa rimane a novant’anni dalla nascita, per noi la risposta è invece semplicemente una: tutto, tanto, troppo (no, mai troppo in realtà). Basta allungare la mano, basta fare click, basta avere voglia di scoprire e andare oltre, basta sfogliare e non solo scrollare, andare a cercare. Perché è (ancora) tutto lì, tra YouTube e canali streaming, Dvd, Blu-ray, libri e pagine web. Una lunga serie di tasselli che conducono a quell’enorme mosaico finale chiamato GMV che negli anni non solo non si è offuscato, ma paradossalmente brilla molto di più oggi.

Perché Volonté non è semplicemente stato uno dei più grandi attori del Novecento, è stato il simbolo del cinema italiano quando il cinema italiano aveva coraggio e non si preoccupava di esiti e botteghino, nemmeno della reazione del pubblico, anzi, portava avanti l’arte come bandiera e Volonté non temeva (anzi, gridava, urlava, invocava) frasi che sarebbero poi rimaste in testa a gente come noi: «Ogni film è politico. Il cinema apolitico è un’invenzione dei cattivi giornalisti». In epoca di politically correct, di numeri da influencer e inutilità varie, il ricordo di Gian Maria Volonté deve servire come monito a osare, a sfidare, a spingere sempre più avanti il confine di quello che facciamo. Il limite non c’è. Il limite ci è stato imposto. E noi ci abbiamo creduto e ci siamo fermati, censurati, bloccati. In nome di qualcosa che abbiamo dimenticato.

Ce lo ha ricordato Marco Bellocchio qualche anno fa, durante il nostro incontro alla Reggia di Caserta (lo trovate qui) chi era davvero Gian Maria Volonté, la sua dedizione, la sua determinazione anche spigolosa sul set di Sbatti il mostro in prima pagina, e come dimenticare Antonio Spoletini che nel suo documentario ricordava di quando l’attore lasciò il set di Indagine su un cittadino… per la disparità della mensa tra attori e troupe. Volonté era totale in tutto quello che faceva, non fingeva nemmeno quando fingeva, era lui Lulù Massa, la faccia della disperazione, unta e sporca, ne La classe operaia va in paradiso: «Senti Lulù, te non muori mica nel tuo letto, sai? Te muori qua, sulla macchina…». E Volonté quando si esponeva sapeva che in qualche modo avrebbe pagato quel suo essere scomodo, ma semplicemente non gli importava.

Dell’eredità, si diceva. Provate a rivedere alcuni frammenti del suo cinema e vi ritroverete davanti non a semplici scene, ma a profezie quasi inquietanti. Riascoltate il discorso del suo direttore de Il Giornale (che nel 1972 ancora non esisteva, Montanelli lo avrebbe fondato due anni dopo) in Sbatti il mostro («Il lettore dev’essere rassicurato»), riascoltate le parole di Lulù Massa («Io in fabbrica mi annoio, mi rompo i coglioni. Allora lavoro, no? Lavoro! Cosa devo fare?»), e poi Vanzetti che sotto i baffoni dice al giudice che quando lui sarà polvere, loro saranno ancora ricordati. Una cosa va fatta però, anche e soprattutto oggi: non credere alla favola dell’attore contro, alla retorica del radicalismo a tutti i costi e della lotta sempre e comunque. Volonté era molto più di una figurina politica da esibire con orgoglio e appartenenza. Era un uomo che aveva deciso dove stare e con chi stare. Sempre. E non è poco.
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