ROMA – Certe storie meritano di essere raccontate. Anzi, meritano di essere tramandate, di generazione in generazione. Storie fiabesche, quasi magiche, incredibilmente emozionanti e appassionanti. Come quei film di una volta che non fanno quasi più. Perché, come ci dice Antonio Spoletini, «I grandi, dagli Anni ’50, li ho visti e conosciuti tutti. Risi, Fellini, Maselli, Germi, De Sica». Se il nome, all’apparenza, non vi dice nulla, dovete sapere che Spoletini, oggi brillante e irresistibile ottantaduenne trasteverino, è tra i più grandi nomi del cinema italiano e mondiale. Anche se, come recita il titolo del documentario a lui dedicato, diretto dal bravo Simone Amendola, non ha Nessun Nome nei Titoli di Coda.
Eppure, Spoletini, è il protagonista assoluto di settant’anni di cinema. Infatti, dal dopoguerra, insieme ai suoi cinque fratelli, si è occupato di cercare le comparse – o meglio, le facce giuste – per il cinema italiano e internazionale. Ancora in attività, Spoletini, come sottolinea il racconto documentaristico di Amendola, vorrebbe lasciare un’impronta tangibile. Ora che, come per ogni uomo, si avvicina un’ipotetico ritiro dalle scene. O meglio, dal dietro le quinte. «Sono tornato da poco da Matera, dove abbiamo girato l’ultimo James Bond», ci confida Spoletini, «A Matera ci lavoro da anni. Ultimamente ci sono stato anche con Terrence Malick, una persona molto affabile, altro che schivo… Capisce l’umiltà di far parte di un gruppo. Una volta mi ha anche detto “Guarda che faccia da cinema che hai!”».
Il docu-film, presentato all’ultima Festa del Cinema di Roma, è una vera e propria raccolta di aneddoti e fotografie, legati tra loro da Amendola. «Mi interessava raccontare gli invisibili», ci dice il regista, «I migranti e il popolo, il centro e la periferia. Tra i poli, c’è la vita. Quella di Antonio è una storia definita, così bisognava lasciarsi andare alla narrativa. La forma del documentario è emersa piano piano, doveva esserci una presenza fisica importante». Una miniera di aneddoti, che escono fuori uno dietro l’altro. «Gli americani, per modo di fare, sono più vicini a noi», continua Spoletini, «E che bello quel set di Lettere al Cremlino, con John Huston, Orson Welles e Max Von Sydow».
Se restiamo, come poche volte prima, completamente in balia delle memorie di Spoletini, è il regista a confidarci un altro episodio: «Dal montaggio l’ho tagliato, ma se dovessi scegliere la cosa che mi ha colpito di più tra i suoi racconti, è quando Gianmaria Volontè, sul set di Indagine, ha lasciato il set, portandosi dietro Antonio. Il motivo? C’era una disparità di trattamento per il pranzo, tra la troupe e gli attori. E questo, per Gianmaria, era inaccettabile. Sul set si è tutti uguali, ma Antonio è davvero unico. Lui è il solo ad aver visto Bergman parlare commosso con Fellini… Voglio dire… Ed è il tempo che fa diventare le cose straordinarie. E lui, oggi, è straordinario».
Così, domandiamo a Spoletini quale sia stato il set che ricorda con più affetto. «In assoluto Non Ci Resta Che Piangere. Non vedevo l’ora che arrivasse il giorno dopo per ricominciare a lavorare…». E adesso? Quanto è cambiato il mondo del cinema e il mondo delle comparse? Del resto, Nessun Nome nei Titoli di Coda è anche una profonda riflessione su ieri e su oggi. «Una volta, dal primo all’ultimo, si faceva tutti parte del set. Era un’appartenenza, un’idea di mondo, oggi, invece, è lavoro», afferma Spoletini, «La passione c’è ancora, ma manca l’utopia, quella che ti fa credere di poter diventare un vero e proprio attore. Come è successo al ”mio” Marcello Fonte, che fu comparsa in Gangs of New York. Ah, un’altra cosa, forse la più importante: prima, come mi ha insegnato Federico Fellini, ci si dava del tu…».
Qui il trailer di Nessun Nome nei Titoli di Coda:
Lascia un Commento