MILANO – Alienazione. Questa è la parola chiave. Una parola già sentita da tutti almeno una volta, spesso usata a caso, tanto che per molti non è mai stata davvero chiara nel suo significato più profondo. Proprio quello che Petri provò a farci cogliere il senso con una chiarezza che fino a quel momento al cinema solo Charlie Chaplin con Tempi moderni aveva saputo toccare. Ma se Chaplin lo aveva fatto giocando con le corde dell’assurdo e dell’iperbole, viaggiando tra il comico e il sentimentale, con La classe operaia va in paradiso (Su Prime Video ed Apple TV+) ci troviamo in un dramma claustrofobico, dentro un realismo crudo e cupo, il cui punctum non è tanto lo sfruttamento economico dell’operaio in fabbrica, ma l’espropriazione dell’umanità del lavoratore. Anche (e soprattutto, paradossalmente) fuori dal posto di lavoro.
Lulù Massa (un superlativo Gian Maria Volonté) è un operaio di lungo corso della BAN. Per rendere più appetibile il suo stipendio, in quindici anni di duro lavoro, è ormai diventato uno stacanovista, di quelli che credono davvero nel valore del lavoro e della produttività, che si compiacciono nel sudare più degli altri e nell’essere loro, di fatto, a tenere in piedi tutta la baracca. In base agli accordi sul lavoro a cottimo, del resto, un operaio come Lulù riesce davvero a portar a casa quattro lire in più, oltre che essere benvoluto dai padroni, che lo indicano come esempio di rettitudine. Ma a che prezzo? Può la totale perdita del controllo sulla propria vita essere sostituita da qualche banconota? Per capire pienamente La classe operaia va in paradiso, bisogna partire dal presupposto che Elio Petri – scomparso nel 1982 – è stato un vero intellettuale. Con questo film non si appiattisce sulle posizioni di una qualche corrente della sinistra del momento, ma prova anzi a richiamarle tutte alla loro origine comune.
L’operazione pone la pellicola politicamente più vicina all’Engels de La situazione della classe operaia in Inghilterra (1845) che ai successivi lavori nati dalla collaborazione del filosofo tedesco con l’amico Marx, con lui ideatore del ‘socialismo scientifico’. Non ci viene suggerito cosa bisogna fare, veniamo solo portati a riflettere attraverso l’osservazione della disgraziata vita di Lulù. Rovinato da quel lavoro nel fisico, nei suoi sempre più aspri conflitti familiari, nella sua ormai assente vita sessuale (la moglie un’appena trentenne Mariangela Melato). E ci si chiede se questo sia un uomo, se la sua sia una condizione accettabile, tutto nella totale inconsapevolezza (almeno iniziale) del protagonista di questa sua tragedia antropologica. Ma Petri va anche oltre nella sua analisi, perché i responsabili della solitudine di Lulù, non sono solo, banalmente, il capitalismo e i suoi modelli produttivi, ma anche coloro che quella società la stanno combattendo. Forse solo a parole.
Prima di tutto gli studenti, a cui viene attribuita la colpa del distaccamento della realtà, dell’eccessivo idealismo e della predilezione per lo slogan a spese della concretezza: incitano gli operai alla rivolta, a volte li aiutano, ma poi li lasciano soli e più disperati di prima. Oppure i sindacati, responsabili per aver perso di vista le battaglie sulla dignità del lavoratore, barattandole con richieste in denaro da poter esibire agli iscritti. Ne sono un simbolo i cedimenti sul cottimo a misura, che per Petri avrebbero aggravato la frustrazione dell’operaio, al quale, è vero, viene innalzato il potenziale di acquisto se produce di più, ma sono sottratti il tempo materiale e le forze per poter godere dei beni di consumo guadagnati (iconica la sequenza in cui Lulù commenta l’inutilità dei suoi oggetti sul tappeto). La battaglia politica che La classe operaia in paradiso vuole supportare, in definitiva, è proprio questa: smettere di richiedere aumenti salariali e iniziare a chiedere un miglioramento delle condizioni materiali di lavoro. Diminuire la fatica dell’operaio, non gonfiarne la busta paga.
Tutto questo viene inserito in ambientazioni scarne, innaturali, buie, ostili e nebbiose con la mediazione di una regia impeccabile, un Volonté di cui mai ci si stancherà di tessere le lodi e un sonoro penetrante, quasi molesto, con commento di Ennio Morricone (rivisto di recente dai Calibro 35, vedi qui sotto). Il film venne tuttavia accolto con entusiasmi altalenanti: criticato in Italia, soprattutto (e paradossalmente) da sinistra, ricevette parole di fuoco da Jean-Marie Straub (disse che film così andrebbero bruciati). A Cannes però La classe operaia va in paradiso portò a casa una Palma d’Oro per Elio Petri, oltre ad una menzione speciale per Volonté. Ma una menzione, per noi, la merita Salvo Randone, grande volto del cinema italiano, qui indispensabile per dare spessore a Militina, un personaggio minore nel minutaggio, ma importante per il modo in cui la spada di Damocle della sua follia (è un ex operaio in manicomio) influisce sulle scelte del protagonista Lulù. «Ma spacchiamo su tutto e andiamo dentro. Ma sì, spacchiamo su tutto e andiamo in paradiso!» Fondamentale.
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