ROMA – Julio Cesar (Edoardo Pesce) ha quasi quarant’anni e vive ancora con la madre (Margarita Rosa De Francisco, straordinaria), una donna colombiana dalla personalità trascinante. I due condividono tutto: una casa piena di ricordi, i pochi soldi guadagnati lavorando per uno spacciatore, Lucio (Gabriel Montesi), la passione per le serate di salsa e merengue. Un’esistenza ai margini vissuta con amore, simbiotico e opprimente, il cui equilibro precario rischia di andare in crisi con l’arrivo di Ines (Maria Del Rosario), una ragazza colombiana reduce dal primo viaggio come mula della cocaina. Da qui parte El Paraìso, il nuovo film di Enrico Maria Artale, presentato nella sezione Orizzonti di Venezia l’anno scorso e ora al cinema con I Wonder Pictures.
Prodotto da Ascent Film, Young Film e Rai Cinema, di El Paraìso Artale ne parla come una storia d’amore: «Una storia d’amore tra una madre e un figlio, una tragedia che affonda i propri eroi nelle sfumature cangianti dei loro umori più intimi, nella delicatezza e nella violenza. Un racconto quasi mitologico su di un legame basato sul sangue che ho tentato di sottrarre al giudizio, senza voler stabilire se ciò che unisce profondamente i due protagonisti sia un atto di amore, più forte delle convenzioni sociali, o un atto psichico disfunzionale che dimostra l’impossibilità di accettare una naturale separazione». Un legame raccontato al ritmo di salsa, merengue e cocaina in un susseguirsi di immagini senza filtri dai colori vividi.
L’ingresso scenico di Ines cambia tutto, spezza i disfunzionali e simbiotici equilibri familiari tenacemente radicati nella psiche di una coppia/non-coppia madre-figlio tra il dolce e il disturbato, rimescolandone l’inerzia in un agire violento e folle. È il turning point cardine di El Paraìso, quello da cui Artale tira fuori la sua tragedia alla luce del sole. Da quel punto il Julio Cesar di un Pesce (co-autore dello script con Artale) straordinario, intenso, fragile e duro ma sempre tra le righe, prende un’altra direzione, vedendo in Ines e nella sua promessa d’amore e di un nuovo inizio in Colombia l’opportunità con cui crescere e dismettere i panni di spacciatore di zona. Un Sogno Colombiano insomma, perseguito da Julio in un cammino di vita emancipata fatto di rinunce dolorose (ma necessarie).
E se è vero che la narrazione di El Paraìso nonostante le premesse, gli ammiccamenti e i gesti, non spinge mai del tutto sulla componente morboso-incestuosa, lasciandola lì, sospesa, rarefatta, avvolgendo la scena senza mai compenetrarla, sono il ballo e la lingua parlata a far da padrone nell’universo scenico di Artale, fonte di poesia, bellezza e catarsi. Attenzione alla colonna sonora: ci sono chicche di Julio Jaramillo e Nicolas Jaar, c’è Madre (ovviamente) di Ismael Miranda e Amor Eterno in tripla versione, quella di Rocío Duarte, quella cantata dalla stessa Margarita (con chitarra di Pesce) e quella di Juan Gabriel nella scena più bella del film. Così, tra italiano e spagnolo, gli uomini e le donne spezzati di El Paraíso cercano di trovare nel presente le risposte ad un passato senza radici e a un futuro che appare nebuloso, privo di speranze. Un piccolo-ma-grande film quello di Artale, davvero. Un‘opera di razza fatta di grandi interpretazioni (da segnalare anche Gabriel Montesi, sempre intenso), sentimenti e sogni, come solo il grande cinema sa fare.
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