MILANO – L’arte le scorre nelle vene in Mati Diop, regista franco-senegalese vincitrice dell’Orso d’Oro con Dahomey alla Berlinale 74. Nata a Parigi, classe 1982, ha diversi modelli a cui ispirarsi per il suo cinema. Viene da un’illustre famiglia, con padre senegalese e madre francese: Wasis Diop, importante musicista, e Christine Brossard, collezionista d’arte. A iniziarla al percorso lo zio, Djibril Diop Mambety, uno dei più influenti registi senegalesi. Tra il Padiglione, laboratorio di ricerca artistica al Palais de Tokyo, e il National Studio of Contemporary Arts Le Fresnay, si fa le ossa occupandosi di progetti video e per il teatro. Nel 2008 arriva il primo ruolo come attrice in 35 Shots of Rum di Claire Denis, e poi nel 2012 Simon Killer. Dopodiché, le sue sono sporadiche apparizioni mentre inizia a concentrarsi sulla regia. Acclamati dalla critica e presentati in diversi festival internazionali, i suoi corti la fanno conoscere al grande pubblico fino al successo di Atlantique.
Nello stile della Diop si ritrova tutto il suo patrimonio culturale e la riscoperta delle origini, soprattutto di quella parte rimasta in Africa e che lei, cresciuta in Francia, non ha mai potuto vivere pienamente. Una mancanza che alla fine le ha permesso di iniziare a raccontare storie. Proprio questa è la definizione che dà del suo cinema: fare film, raccontare storie. La scintilla che l’ha fatta riavvicinare alle sue radici è stata un viaggio in Senegal, dove ha potuto confrontarsi con gli aspetti di quella cultura che non conosceva. «Come ragazza di razza mista, c’è sempre una parte visibile e una invisibile di te; c’è un posto che abiti e un posto che diserti», ha spiegato Mati Diop. Un’esperienza che le è servita per riconciliare i due rami delle sue culture e in parte anche per ricreare l’adolescenza africana che non ha mai avuto. Viaggio che ha segnato profondamente la regista tanto da ispirarla proprio per Atlantique, disponibile nel catalogo di Netflix.
Storia di un amore contrastato nella Dakar di oggi, luogo in cui l’emigrazione verso l’Europa resta ancora la speranza più grande, il film, primo lungometraggio di Mati Diop, è stato presentato in concorso a Cannes 72 rendendolo un candidato credibile per la Palma d’Oro (andata poi a Parasite). Ha vinto, però, il secondo premio più importante, il Grand Prix, arrivando poi al New York Film Festival. Un traguardo notevole, se si considera anche che Mati Diop è la prima donna di colore ad essere candidata alla Palma d’Oro. Nonostante il successo riscontrato e l’incredibile qualità del prodotto, Atlantique non ha però avuto una distribuzione nei cinema, impedendole – di fatto, una presenza (quasi) sicura nella cinquina dei Migliori Film Stranieri agli Oscar 2020.
Una mossa strategica, forse, anche dal punto di vista commerciale dal momento che dall’accordo sono stati esclusi diversi paesi tra cui Cina, Svizzera, Russia e Francia. Da una parte, la distribuzione on-demand aiuta il film (e il futuro è orientato tutto da questa parte…), ma dall’altra, se la sala conta ancora qualcosa, fa riflettere che un’opera di questo calibro abbia trovato spazio “solo” in streaming, magari destinato a perdersi tra le migliaia di titoli disponibili e condannato a passare in secondo piano, non permettendogli nemmeno di toccare tutte le sponde del mondo. Per questo, concedersi il piacere di riscoprire il potente messaggio di Mati Diop diventa necessario, confidando che il suo talento torni presto davanti ai nostri occhi. Ce n’è disperatamente bisogno.
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