ROMA – «Hollywood è più scema, più crudele e più stupida di tutti i libri che ho letto a riguardo. Ci sono troppe mani che dirigono, troppe dita nel piatto […]. Sono golosi e cattivi». Nella diretta visione della vita, Charles Bukowski, che se ne andava il 9 marzo del 1994, non è stato un fan del cinema e, come da lui spesso dichiarato, aborrava le dinamiche hollywoodiane. Del resto, il poeta, il romanziere, il cantastorie che amava il fegato, lo sporco, il reale, non ha mai digerito le regole umane, figuriamoci una realtà condensata in un paio d’ore. Eppure, la sua Los Angeles, putrida e infestata dall’andirivieni di personaggi barcollanti e sconfitti, il voler fregare la Signora Morte a suon di risate, la solitudine stordita dal sesso e dal bourbon, sono una perfetto filmato (in Super 8) della decadenza del XX Secolo, descritti senza fronzoli nei racconti e nelle composizioni che ignorano regole e cielo, buttando l’inchiostro su un panorama brutale, ironico e disilluso.

Eppure, la settima arte, nonostante sia perfetta per i personaggi dello “sporcaccione” Henry “Hank” Chinaski – lo pseudonimo protagonista di Post Office, Factotum, Donne e molti altri romanzi e racconti – ha sempre trovato in lui poco entusiasmo. Il motto, non propriamente stimolante, era: “Volete farne un film? Fate come vi pare. Non mi importa niente”. In fin dei conti parliamo di Bukowski: lo amiamo per il suo sapersi mettere al di sopra delle regole e dei dogmi, come un dio minuscolo che osserva beffardo il carrozzone dei personaggi trainato da se stesso. E, nonostante tutto, Hank, al cinema c’è stato diverse volte – tutte poco ricordate – con film, documentari, citazioni, omaggi. Così come un certo cinema ha preso continuamente spunto dalle sue sfumature.

E allora per capire il rapporto di Bukowski con lo schermo dobbiamo partire da Hollywood, Hollywood!, dove Chinanski – con cinque gatti e una BMW nera, “la macchina dei duri” – raccontava l’epopea, il weird e la noia mentre andava avanti la produzione di Barfly – Moscone da Bar, film oggi svanito nel nulla (nemmeno in streaming si trova) di cui firmò, nel 1987, la sceneggiatura. Il film, diretto da Barbet Schroeder, passò a Cannes, e ad interpretare Chinaski c’era un perfetto Mickey Rourke. Scrittore fallito, lurido, ubriacone, preso a pugni dalla vita e dalle donne. Insomma, la performance di Rourke salva l’unico film – ma doveva esserci Sean Penn, che si offri per la parte volendo un dollaro di cachet – dove lo stesso Bukowski ha messo direttamente mano.

Altro tentativo ambizioso e da riscoprire – nonostante Bukowksi lo abbia più volte attaccato – è Storie di Ordinaria Follia (lo trovate su Prime Video qui) diretto da Marco Ferreri. Tratto dalla sua raccolta di storie, nei panni di Chinaski (nel film Charles Serking) c’è Ben Gazzara, innamorato di Cass (Ornella Muti!), in una sbronza di vita, erotismo, distruzione e morte, dove Bukowski compare con una battuta. Film dimenticato quello di Ferreri (ma con ben quattro David di Donatello, ricordiamolo), come è stato dimenticato l’unico – a detta di Hank – film apprezzato dallo scrittore: Crazy Love – Compagni di sbronza, firmato da Dominique Deruddere sul calar degli Ottanta, ispirato a tre storie di L’Amore è come un cane che viene dall’Inferno. Pellicola finita ora su Netflix in flat, dove il belga Josse De Pauw si calava nelle svolte sessuali di un uomo, tra gioventù, maturità e declino.

Cinema – e citiamo anche Factotum, dove Matt Dillon da volto al fumo e al bicchiere di Chinaski –, ma pure citazioni, omaggi, ricordi. Pensiamo al mitico Hank Moody di Californication (il personaggio di David Duchovny è un chiaro rimando allo scrittore), all’affetto dell’amico Sean Penn, che gli ha dedicato un commovente “I Miss You” alla fine di 3 Giorni per La Verità con Jack Nicholson e ai documentari che lo hanno raccontato. Tra i tanti, uno da non perdere: You Never Had It – An Evening with Bukowski, presentato a Venezia nel 2016. Quarantacinque minuti di intervista con Hank e la giornalista italiana Silvia Bizio nel 1981, a San Pedro, insieme a Linda Lee Beighle, sua futura moglie, e all’amato gatto bianco.

Bukowski a ruota libera insomma, con le mani occupate da una sigaretta sempre accesa e da un bicchiere colmo, a raccontare, stropicciato e strascinato, la strada e le nuvole per lui troppo alte, quella foto con un Hemingway sbronzo, la sessualità sua e di Boccaccio, la devozione per John Fante. In You Never Had It ci sono le poesie e la sua filosofia pulp, in un gioco di immagini su una Los Angeles che non ha nulla a che fare con i dreams. E quella mordente e rivelatoria verità, pronunciata da Hank come un amen caustico e sporco: «La razza umana non è granché, non è mai migliorata, da quel che ricordo». Henry Charles “Hank” Bukowski Jr., uno che non amava il cinema, ma amava tanto dire la verità.
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