ROMA – L’incredibile storia di un bambino, ferito dalla vita, che trova la salvezza grazie all’amore dei suoi cani. Tutto qui? Sì. Parte da questa semplice trama Dogman, il nuovo film di Luc Besson quattro anni dopo Anna, action a ricezione mista di critica e pubblico. E lo fa scegliendosi il migliore dei palcoscenici possibile: la Mostra di Venezia dove la pellicola è stata presentata in concorso e talmente voluta da Besson da posticipare la distribuzione in sala di un paio di mesi. In origine infatti Dogman sarebbe dovuto uscire in primavera. Un progetto molto sentito per l’autore francese, nato dopo essersi imbattuto in un’assurda storia vera: «L’ispirazione per questo film è venuta, in parte, da un articolo che ho letto su una famiglia francese che mise il proprio figlio in una gabbia quando aveva cinque anni…».

Da qui l’esigenza di Dogman: «Sì, perché ha sollevato la questione di cosa questo faccia mentalmente a una persona. Come sopravvive e cosa fa della sua sofferenza? Volevo esplorare quell’idea. La sofferenza è qualcosa che ci accomuna e l’unico antidoto è l’amore. La società non ti aiuterà, ma l’amore può aiutarti a guarire. È l’amore della comunità di cani che il personaggio ha costruito ad essere il guaritore e il catalizzatore». Merito anche di un incredibile Caleb Landry Jones (anche musicista, ci aveva raccontato il suo disco qui) che per Besson ha rappresentato la prima e unica scelta possibile per il ruolo da protagonista: «Dogman non sarebbe lo stesso senza Caleb. Un personaggio complesso come Douglas aveva bisogno di qualcuno che potesse incarnarne sfide, debolezze, tristezza, forza e desiderio. Volevo essere il più onesto possibile con questo film».

E ci riesce Besson grazie a un Jones intenso, estroso, fragile ed esplosivo, praticamente allo stato dell’arte. Dopo lo straordinario Nitram che lo vide vincitore del Prix d’interprétation masculine a Cannes e ancora inedito (ma perché?), ecco un ruolo problematico, difficile, cucitogli su misura da Besson nella sua dualità spiccata che sa di consacrazione. Tra le pareti di carne del suo corpo martoriato, da una parte troviamo Douglas, ragazzino dal tragico passato familiare cresciuto a pane, teatro e Shakespeare che sogna l’amore della bella Salma (l’esordiente Grace Palma). Dall’altra c’è Dogman, uomo ai margini della società dall’equilibrio mentale precario eppure spaventosamente metodico nel suo agire. Un difensore dei deboli, un livellatore di disequilibri sociali, un ridistributore di ricchezze. Un (super)eroe silenzioso che vigila sul quartiere sotto pseudonimo. Nel mezzo c’è l’amore per i cani.

D’altra parte, come diceva il filosofo Arthur Schopenhauer: «Chi non ha mai posseduto un cane non sa che significa essere amato». Una frase che – per certi versi – definisce appieno la ratio filmica del Dogman di Besson. Il dolore di un passato impossibile da elaborare diventa attraverso l’empatia e l’amore spontaneo, sincero e univoco della truppa di quattrozampe al fianco di Douglas, carburante vitale per il suo personale secondo atto che arricchisce la narrazione di Dogman di momenti cinofili deliziosi, commuoventi e involontariamente comici. Il problema di Dogman come pellicola, semmai, sta nel resto. Nella caotica sovrapposizione di piani narrativi tra passato e presente, e in una violenza fumettosa, convincente nelle intenzioni e nelle atmosfere ma non nell’effettiva resa: sempre diluita da Besson, mai lasciata veramente cruda.

Poco importa però. È una straordinaria parabola di dolore allegorico quella di Dogman, un ritorno in grande stile per un maestro di cinema come Besson. Un autore che negli ultimi anni, a dire il vero, tolto il coloratissimo e pirotecnico prologo del sottovalutato Valerian e la città dei mille pianeti, non si vedeva così ispirato, incisivo e voglioso di stupire, meravigliare ed emozionare il proprio pubblico dagli anni Novanta dorati di Nikita, Léon, Il quinto elemento e Giovanna d’Arco. E così ecco Dogman, instant cult destinato a ritagliarsi un posto importante nella storia del cinema come una delle pellicole di riferimento della propria decade…
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