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Un affare di famiglia: i dilemmi morali e la poetica dei sentimenti di Kore-Eda

Palma d’Oro a Cannes, il film manifesto del regista giapponese punta all’Oscar. In esclusiva su CHILI

Nella cinquina dei titoli candidati all’Oscar come miglior film straniero, oltre al bianco e nero dei due favoriti, Roma di Alfondo Cuarón e Cold War di Pawel Pawlikowski, c’è una pellicola che potrebbe riscrivere un finale apparentemente già stabilito. Di quale film si tratta? Un affare di famiglia – lo trovate in anteprima esclusiva su CHILI -, già Palma d’Oro all’ultimo Festival di Cannes, diretto da Hirokazu Kore-Eda, in questi mesi impegnato nella post-produzione del suo primo film europeo, The Truth (ve lo abbiamo raccontato qui), con protagonisti Catherine Deneuve, Juliette Binoche e Ethan Hawke.

Una scena di Un affare di famiglia.

Un film che segna la conclusione di una fase importante e distintiva della sua filmografia, caratterizzata dal ritorno di temi raccontati e analizzati da angolazioni sempre diverse. «Fino a I Wish, nel 2011, sentivo di essere ancora nella prima fase del mio percorso come regista», ha dichiarato lo stesso Kore-Eda a IndieWire, «Un periodo considerevole se penso che ho iniziato a fare film nel ’91. Con Father and Son è iniziato, invece, un secondo periodo che si è concluso con Un affare di famiglia. E ora sento di starmi muovendo verso una terza fase…».

Gli Shibata al completo.

Ambientato a Tokyo, il film è la summa del cinema di Kore-Eda che torna a parlare di famiglia e le sue implicazioni sociali grazie agli Shibata. Un nucleo (apparentemente) composto da una nonna, una coppia di sposi, la giovane sorella di lei e un bambino che vivono grazie alla pensione dell’anziana donna e a dei furtarelli – il titolo inglese del film è Shoplifters, taccheggiatori -, perché «quello che è nei negozi non è ancora di nessuno». Di ritorno proprio da uno dei loro abili taccheggi, Osamu (Lily Franky, volto ricorrente nel cinema di Kore-Eda) e Shōta (Jyo Kairi) s’imbattono in una bambina abbandonata e maltrattata dai genitori e decidono di portarla a casa con loro per prendersene cura.

Una scena del film.

«Una delle grandi consapevolezze della mia vita è che avere un bambino non fa di te un genitore», racconta il regista, «In Un affare di famiglia guardo a tre generazioni che vivono insieme, perché è ciò che tradizionalmente si trova in un nucleo familiare giapponese, ma volevo giocare con questa realtà per mostrare che, anche all’interno di quei termini, il nucleo familiare tradizionale sta subendo un cambiamento permanente». Ed è così che il film assume i contorni di una denuncia sociale, raccontando le vite di chi vive ai margini e mettendo lo spettatore davanti ad un quesito morale.

Un’immagine di Un affare di famiglia.

Perché gli Shibata, nonostante l’assenza di legami di sangue, sono, a modo loro, una famiglia e, a modo loro, si predono cura l’uno dell’altro, tra frittelle da mangiare insieme ad una zuppa rubata e gite al mare a cavalcare le onde. Così, dopo Father and Son, Little Sister e Ritratto di famiglia con tempesta, Hirokazu Kore-Eda prende il concetto di nucleo familiare tradizionale e lo azzera, ponendo l’accento sulla potenza dell’unione, qualunque essa sia, per affrontare la vita e i suoi colpi bassi. Anche se pronunciare la parola papà diventa possibile solo quando nessuno ti ascolta.

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Qui potete vedere una clip di Un affare di famiglia:

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