MILANO – A vederlo ricoperto di tatuaggi, in The Tax Collector (Sangue chiama sangue, lo trovate su CHILI) , ecco che viene fuori accentuato l’ideale che lo accompagna ormai da diversi anni. Eccentrico, non convenzionale, vive secondo le sue regole. La carriera – e la vita – di Shia LaBeouf sono sempre state scandagliate dai riflettori con un occhio negativo, se non di disprezzo. Le sue trovate nei festival e sui red carpet hanno spesso contribuito a rafforzare la sua immagine di attore disturbato, un’etichetta che non faceva altro che mettere in secondo piano il suo talento, fino a farlo considerare dai più come per spacciato. In fondo, la sua carriera, che da sempre si alterna tra alti e bassi, ha conosciuto delle brusche frenate.

Da enfant prodige della Disney, alla saga di Transformers fino ai film più impegnati come American Honey, Shia ha saputo adattarsi ai ruoli mentre sfidava apertamente il concetto stesso di celebrità, qualcosa che lui non avrebbe mai voluto diventare. L’ultima svolta è stata Honey Boy, il biopic sulla sua infanzia nato da una terapia durante il periodo trascorso in rehab. Acclamato dalla critica, ha riscosso un enorme successo. E ha aperto la strada all’attore per tornare ad essere in prima fila tra i divi di Hollywood. Dunque, dopo il toccante In Viaggio verso un Sogno lo scorso anno, è arrivato il tanto atteso The Tax Collector, che segna non solo il ritorno all’azione di Shia LaBeouf, ma anche il ritorno del regista David Ayer.

Cult di successo? Non proprio. Appena uscito negli USA, ha già scatenato parecchie controversie, nonché un discreto rifiuto dalla maggior parte della critica. The Tax Collector non pretende di essere il massimo film sui gangster latino-americani, ma si inserisce perfettamente in quel filone delle gang nella periferia di Los Angeles, tanto mainstream da affascinare sempre di più la terra delle star. I protagonisti, appunto, sono due esattori delle tasse, che lavorano per Wizard, un signore della droga. Le cose cambiano quando dal Messico torna un rivale del boss, mischiando le regole del gioco. E, allora, le critiche più in voga includono i tanti stereotipi di cui è vittima la comunità latino-americana, la piattezza di alcune performance e il cosiddetto “brownwashing”, dal momento che molti hanno erroneamente interpretato il personaggio di Shia LaBeouf, Creeper, come un attore bianco nei panni di un latino (cosa che è stata smentita a più riprese dal regista).

Tutti aspetti che a molti hanno fatto storcere il naso ma su cui gli amanti del genere, per quanto semplicistico il film possa essere, sono disposti a sorvolare. Shia e Ayer avevano già collaborato nel 2014 per il bel Fury, e il sodalizio tra i due si è rinforzato. Se è vero che analizzando The Tax Collector si possono trovare indubbiamente dei difetti, la performance di Shia LaBeouf non si riserva lo stesso destino. Alla lista dei ruoli da lui interpretati mancava giusto un macho duro e violento nella più classica immagine di gangster, e Shia ci riesce perfettamente. Senza contare la sua immancabile dedizione: se già in Fury era stato disposto a farsi togliere un dente, qui si è addirittura fatto veramente tatuare il petto con l’enorme tatuaggio che il suo personaggio prevedeva. Forse The Tax Collector non è il migliore film dell’anno, ma se ha fatto qualcosa di buono, è stato riconfermare l’interesse per Shia LaBeouf. Decisamente meritato.
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Qui il trailer originale del film:
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