MILANO – La connessione è instabile, il volto appare e scompare, in formato verticale. Sembra quasi un frammento di una sua pellicola, invece è il collegamento Zoom con David Cronenberg, a Londra febbricitante, costretto a saltare anche l’invito del BAFF – BA Film Festival che aveva voluto l’autore canadese per l’apertura. «Mi vedete? Mi sentite?», dice Cronenberg prima di iniziare a rispondere alle domande sul suo nuovo film, The Shrouds – Segreti sepolti, ora al cinema dopo il passaggio in concorso a Cannes lo scorso anno. Questa volta il protagonista è Vincent Cassel, non a caso molto somigliante allo stesso Cronenberg, che ha perso la moglie Carolyn Zeifman nel 2017 e che nel film ha voluto raccontare il suo lutto. A fianco di Cassel, ecco Diane Kruger, Guy Pearce, Sandrine Holt e Jennifer Dale. Ecco come il regista ci ha raccontato il film.

IL TITOLO – «In inglese, la parola “shroud” significa “sudario”, ma in modo più generale anche “velo”, ovvero qualcosa che nasconde, che maschera, che avvolge. Se ci pensate, nella maggior parte dei riti funerari ciò che conta è negare la realtà della morte, nascondere i corpi. Ecco, in questo caso ho voluto procedere nella direzione opposta: i miei sudari digitali rivelano invece di nascondere. Ho scritto questo film dopo la morte di mia moglie, scomparsa sette anni fa, nel 2017, un lutto che – ovviamente – mi ha toccato profondamente. Così, settimana dopo settimana, quella che doveva essere un’esplorazione tecnica è diventata, poco a poco, un’esplorazione emotiva e personale…».

IL MIO VIAGGIO – «Ho cominciato a girare film nel 1969 con Stereo e sicuramente oggi rispetto ad allora oggi è molto più facile fare un film perché i mezzi sono accessibili a tutti. Basta un iPhone e chiunque abbia una buona idea può girare un film. In quegli anni serviva l’attrezzatura e una buona quantità di denaro, era impensabile girare un film così, senza nulla. Oggi però paradossalmente il cinema indipendente ha più difficoltà perché vengono finanziati e spinti solo progetti che guardano più al mainstream, quindi se da una parte è più semplice produrre e girare un film, dall’altra è più complesso poi farlo distribuire».
IL CINEMA – «In un certo senso, i sudari di Karsh sono processi cinematografici. Registrano un cinema dopo la morte, un cinema della corruzione del corpo. Non ho affrontato questo tema frontalmente, ma volevo raccontare gli aspetti di un cinema tombale, cinema dei cimiteri. In The Shrouds, Karsh è consapevole che i suoi processi diano vita a immagini, a tecniche simili a quelle del cinema. Mi capita spesso di guardare film per ritrovare i morti. Vederli e sentirli. Il cinema, a modo suo, è una macchina per far apparire fantasmi, esseri umani dopo la loro morte. A suo modo, il cinema è un cimitero…».

LA MORTE – «Chi crede in Dio sa che c’è una vita dopo la morte, ma se si è atei, come me e come il protagonista di The Shrouds, allora le cose cambiano e la relazione che ci fu in vita può continuare, ma in un quadro più biologico. Karsh non sopporta di non sapere cosa accade al corpo di sua moglie e quindi la relazione continua, ma non attraverso uno scambio di parole. È certamente perverso, morboso, grottesco, ma per un uomo che piange sua moglie no, non lo è. È, in realtà, un atteggiamento positivo, un modo per sopportare il dolore. Karsh investe tutto su questo: denaro e energia per un cimitero high-tech. Ma alla base, tutto è fondato sul corpo, come in molti dei miei film. Il corpo è la realtà».

IL CAST – «Ho scelto Diane Kruger e Vincent Cassel con molta attenzione. Ci tengo a dirlo perché trovo che nel mondo del cinema il casting sia spesso nascosto o trascurato, se ne parla poco, sbagliando. Io invece dedico molto tempo, da sempre, alla scelta degli attori. La scelta può distruggere un film, oppure, al contrario, elevarlo e renderlo unico. È la base di una sceneggiatura; come regista, ti offre ciò di cui un film ha bisogno. The Shrouds è stato un set straordinario con attori che alla fine mi hanno dato molto più di quello che ho messo nella sceneggiatura…».

LA TECNOLOGIA – «Dal mio secondo film, Rabid – Sete di sangue, era il 1977, ho inventato una tecnologia che oggi è diventata effettiva: quella delle cellule staminali. La tecnologia non è una cosa venuta da un altro mondo e che ci distruggerà, credo sia parte di noi, è uno specchio. La tecnologia può dare origine a cose belle o brutte. Per me, esaminare la condizione umana ha sempre significato esaminare la tecnologia. La gente ha paura del cambiamento, ma in questo momento, io riesco a vedere grazie a un dispositivo di lenti in plastica che mi sono state impiantate chirurgicamente e ascolto tutto grazie a apparecchi acustici. La mia carriera di regista sarebbe finita da tempo senza queste protesi. Per questo non ho paura, ma provo anzi ammirazione per la tecnologia..».
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