ROMA – Vi siete mai chiesti quali siano effettivamente le ferite capaci di sopravvivere all’amore iniziato e poi interrotto, eppure disseminato nel corso di un’intera vita e forse molto di più? Ci sono amori che non abbiamo mai vissuto e che quasi certamente non avremo il privilegio di vivere. Li immagineremo però e lo faremo attraverso lo sguardo e il tocco. Quello concreto, oppure apparente e fantasmatico, che nella folla o si disperde, oppure ci lega a quel momento per l’eternità. Il volto sul tram, piuttosto che dal lato opposto della strada, il gomito sfiorato sul bracciolo della sala cinematografica o ancora in viaggio, dall’altra parte del mondo. Lì dove un incontro fortuito e mai realmente esplorato, può immediatamente farci sentire a casa. Lì dove mai ci saremmo immaginati di incontrare l’amore, che forse non è realmente tale, eppure è così che si presenta a noi. Perché le ferite dunque?
Perché ad ogni amore finito, oppure mai cominciato e soltanto desiderato, o ancor meglio, immaginato, corrisponde un dolore, che è tanto della memoria, quanto del cuore e che è diverso per ciascuno di noi, inevitabilmente. Un dolore che sopravvive al tempo, all’evoluzione degli spazi e delle vite. Ci sopravvive infatti e a noi a lui. Quella dell’eterno amore e dolore, è una questione esplorata di frequente dalla letteratura, eppure la rintracciamo raramente nella produzione cinematografica d’oggi. Accadeva rispetto al meraviglioso e leggendario Dracula di Bram Stoker di Francis Ford Coppola (e James V. Hart), in quel breve eppure incredibilmente celebre e significativo passaggio: «Ho attraversato gli oceani del tempo per trovarti» e accade ancora a distanza di trentadue anni, nel surreale, onirico e sperimentale The Beast (La bête), undicesimo lungometraggio da regista di Bertrand Bonello.
Come detto, agli amori finiti, oppure mai cominciati, sopravvivono le ferite, che appartengono alla memoria e al cuore. Ferite che possono condurre ad un nuovo doloroso tentativo d’amare, nonostante le trasformazioni del tempo, dei corpi e degli scenari attraverso i quali questi si muovono incessantemente e confusamente. All’amore però appartengono anche zone grigie, o addirittura buie e spaventose, come quelle della rabbia e della violenza. Le stesse che possono condurre alla morte. Talvolta come atto ultimo d’amore, altrimenti di disperazione, laddove niente è mai potuto cominciare. Gabrielle (Léa Seydoux è magnetica e seducente) e Louis (George MacKay, interprete dall’indubbio talento), sono i protagonisti assoluti di The Beast. Due giovani individui che forse un tempo si sono amati, o almeno, hanno tentato disperatamente di farlo, pur avendo piena consapevolezza di un destino avverso e di un presagio, che come un’ombra non si sarebbe allontanata mai, né dall’uno, né tantomeno dall’altra.
Com’è possibile dunque vivere un amore, se la morte non attende nient’altro, se non l’irruzione improvvisa e dolorosa sulla scena dei sentimenti e dei legami spezzati dalla brutalità e dall’irrimediabilità della morte? Bonello all’ombra come presagio, preferisce la figura certamente più terrena, eppure simbolica del piccione. Colui che di solito è incaricato di portare un messaggio, che è quasi sempre di vita, mentre in questo caso invece, di morte. A meno che resti confinato all’esterno, senza mai violare gli spazi interni di Gabrielle e Louis. Spazi che superficialmente appartengono allo scenario domestico, mentre scavando più in profondità, al cuore e alla memoria. Ecco che Bonello, sospeso tra l’immaginario surreale, onirico e letterario di Murakami e quello invece cinematografico di Vecchiali, Lynch e Carax, si incarica in compagnia dei suoi due eccellenti interpreti, di raccontare l’evoluzione di una follia d’amore, attraverso i secoli, gli spazi virtuali e fisici del tempo e della tecnologia, che incessantemente prosegue il suo avanzamento.
Sembrerebbe quasi osservare Eternal Sunshine of the Spotless Mind e ancora Vanilla Sky, eppure è soltanto apparenza. Il processo creativo di Bonello è in questo senso caleidoscopico e psichedelico, nel suo confuso eppure vividissimo intreccio tra linguaggi e codici d’immagine estremamente differenti tra loro. Si passa infatti per il cinema in costume, il videoclip, il sci-fi, il noir e così il cinema horror, del quale Bonello si serve per sprofondare una volta per tutte i suoi due giovani innamorati, nella reale vena di follia, disperazione, rabbia e violenza, che solo un amore mai cominciato e soltanto desiderato, può generare. The Beast è certamente il film più ambizioso, allegorico, denso e respingente di Bertrand Bonello. Capace di dar vita ad un vero e proprio universo di toni, personaggi e stili, mantenendoli in vita per quanto possibile, senza mai farli cozzare gli uni contro gli altri, piuttosto donando loro grande libertà di vagare nel tempo, negli spazi e negli sguardi.
Protetti talvolta da un liquido amniotico oscuro e seducente, altrimenti affidati agli stilemi e topos dei generi di riferimento. Laddove l’horror prende piede, è la paura a dominare e così la violenza in The Beast, quella vera, spaventosa e macabra. Sembrerebbe essere una libera trasposizione della celebre novella di Henry James, La bestia nella giungla, eppure guardando a questa folle parabola sull’amore impossibile, dagli inizi e dalle fini misteriche e fantasmatiche, delle quali inevitabilmente devono – e dobbiamo – raggiungere piena consapevolezza nel corso del tempo, non può che tornare alla memoria Frammenti di un discorso amoroso di Roland Barthes. Quest’ultimo avrebbe forse riassunto il significativo profondo del film: «Come finisce un amore? – Ma allora finisce? Nessuno – salvo gli altri – lo sa mai; una specie d’innocenza nasconde la fine di questa cosa concepita, propugnata e vissuta come eterna. Qualunque sia la fine dell’oggetto amato, sia che esso scompaia o passi nella sfera Amicizia, io non lo vedo neanche svanire: l’amore che è finito si allontana verso un altro mondo come un’astronave che cessa di mandare segnali: l’essere amato che prima segnalava chiassosamente la sua presenza, diventa tutt’a un tratto muto (l’altro non scompare mai come e quando ci si aspetta)».
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