ROMA – Siamo nel tribunale di Saint-Omer, vicino Calais. La scrittrice Rama (Kayije Kagame) assiste al processo di Laurence Coly (Gusliage Malanda), una donna accusata di aver ucciso la figlia di quindici mesi dopo averla abbandonata sulla riva di una spiaggia del Nord della Francia. Rama intende trarre dal caso una rivisitazione contemporanea del mito di Medea. Ma mentre il processo va avanti, nulla procede come previsto e la scrittrice, incinta di quattro mesi, si ritroverà a mettere in discussione ogni certezza. Anche la propria maternità. Da qui parte Saint Omer, acclamata opera prima di Alice Diop presentata in concorso a Venezia79 e disponibile in streaming su Rarovideo Channel, Prime Video e The Film Club.
Un’edizione fortunata per la Diop che ha visto la cineasta francese insignita del Leone d’Argento – Gran Premio della Giuria e del Leone del Futuro – Premio Venezia opera prima Luigi De Laurentiis. Per un Saint Omer che è sì prima regia, ma solo di finzione. La Diop si è imposta infatti negli anni come raffinata e incisiva documentarista dedita principalmente a soggetti della società francese contemporanea come La Tour du Monde, documentario dedicato alla diversità culturale del complesso residenziale Cité des 3000, oppure Vers La tendresse, cortometraggio vincitore del César Award 2017 sulle vittime di violenza da parte delle forze dell’ordine. Non ultimo Nous – presentato alla Berlinale71 nella sezione Encounters – che si serviva di un binario ferroviario che attraversava Parigi da Nord a Sud per intrecciare quattro storie ai margini della società.
Saint Omer invece nasce altrove, dall’esigenza della Diop di sbarazzarsi di un’ossessione: «Tutti i miei film nascono sempre da un sentimento, un’intuizione, che cresce e cresce fino a diventare un’ossessione così forte da far nascere il film. Per Saint Omer l’ossessione nasce da una foto pubblicata su Le Monde nel 2015. È un’immagine in bianco e nero, scattata da una telecamera di sorveglianza: una donna di colore, alla Gare du Nord, spinge una carrozzina con un bambino di razza mista tutto fasciato. Due giorni prima, un bambino era stato trovato a Berck-sur-Mer, trasportato dalle onde, alle sei del mattino. Nessuno sapeva chi fosse, i giornalisti e gli investigatori pensavano a un’imbarcazione di migranti che era andata alla deriva. Gli investigatori avevano trovato un passeggino in un boschetto a Berck-sur-Mer».
E non finisce qui il racconto della Diop: «Da lì, studiando i filmati delle telecamere di sorveglianza, gli investigatori erano risaliti a questa donna di colore con il bambino. La guardo, so che è senegalese, so che abbiamo la stessa età, la conosco così bene che mi riconosco. E così inizia l’ossessione per questa donna». Sette anni dopo Saint Omer, dove la Diop, tra Resnais e Pasolini, Hiroshima Mon Amour e Medea, costruisce attraverso la coscienza del racconto Rama (una grande Kagame che cresce alla distanza) un dramma esistenziale sulle ragioni e le certezze dell’individuo. La cornice legal infatti diventa un teatro di ricordi e dolore intessuto di piani sequenza dalle immagini pulitissime e mantenute dalla Diop, lasciate vivere nell’inquadratura.
Immagini rese cinema indimenticabile dal talento esplosivo della Malanda la cui Laurence Coly, per mimica e presenza scenica solo apparentemente fissata, ha tutto per entrare, di diritto, tra i personaggi iconici del cinema mondiale. Un piccolo-ma-grande film Saint Omer. Un’opera da celebrare, comprendere appieno nelle sue pittoresche sfumature, ma soprattutto da studiare interamente. Testimonianza filmica dei primi passi di finzione compiuti da un’autrice, Alice Diop, che ha tutto per consacrarsi come una delle più grandi e raffinate artiste della sua generazione. E forse, dopo una gemma dello splendore di Saint Omer, lo è già.
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