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Parigi, l’Odissea, l’amore: perché Mission: Impossible – Fallout è il migliore della saga

Tom Cruise ed Ethan Hunt, il richiamo all’epica e quell’eroe acheo diventato contemporaneo

Era dai tempi di Ronin che non si vedeva un inseguimento automobilistico del genere. Tom Cruise alias Ethan Hunt, in sella ad una moto scrambler, sfreccia contromano per tutta Parigi. Dai sampietrini di Montmartre, fin lungo l’Avenue de l’Opéra, arrivando al Panthéon, gettandosi (sempre contromano) nella vorticosa rotatoria della Place Charles de Gaulle, dove svetta, granitico, l’Arc du Triomphe. La telecamera di Christopher McQuarrie non stacca quasi mai, in un semi-piano sequenza adrenalinico che pare un riff di Tony Immi, mentre suona con i Black Sabbath: contenuto, chiaro, elegante, ma anche potente, sincopato, elettrizzante.

E non lo nascondiamo, questa scena di Mission: Impossible – Fallout è di quelle che restano. Un po’ come quella volta a Dubai, quanto Hunt appariva e scompariva come un fantasma nella polvere del deserto (Mission: Impossible – Ghost Protocol), oppure quell’altra, quando su intuizione di John Woo, in un bunker sotterraneo di Sidney, si palesava tra le fiamme e le colombe (Mission: Impossibile 2), come un iracondo Bellerofonte a caccia della Chimera. Così, anche nel sesto, grande film della saga – il migliore? Forse –, il richiamo all’epica è speculare: la missione impossibile, questa volta, gli arriva tra le pagine dell’Odissea – dovrà recuperare una valigia carica di plutonio, eliminando la cricca terroristica che le gira attorno –, spingendolo verso un mare sconosciuto, impervio, letale.

Ulisse, lontano da ciò che conosce (e che ama), ma anche Achille: Ethan difende la causa ma corre per sé, in conflitto con quei piani alti che finiscono di peggiorare le cose, in un gioco al potere che non fa sconti. E Hunt, quasi sessantenne – proprio come Cruise -, di certo non si risparmia: salta, spara, vola, scivola, ammicca, si fa male (nella realtà come nella finzione, gli stunt sono roba per ragazzini), cade, si rialza. E corre, soprattutto. Ma non corre da solo, perché Hunt, e i suoi ventidue anni di cinema, una cosa l’ha subito messa in chiaro: non è James Bond, per salvare il mondo serve il sacrificio di tutti. Dunque, con lui, le colonne con il volto di Vig Rhames (affezionato alla saga fin da Brian De Palma), di Simon Pegg, di Rebecca Ferguson, di Alec Baldwin.

Come una famiglia, ad aiutare e supportare Hunt in quella che è la missione nella missione. Proteggere, tenendosi dolorosamente alla lontana, dall’amore della sua vita: Julia Meade/Michelle Monaghan. Bellerofonte, Achille, Ulisse e ora Ettore, che difende, a costo di tutto, l’unica cosa che per lui conta, pur non potendola avere. Ed ecco che torna quell’Ulisse dell’inizio: in giro per un piccolo mondo facendosi chiamare Nessuno, ripulendolo dai ciclopi, sognando di una indimenticabile Penelope. Ethan Hunt aka Tom Cruise, eroe acheo in un film d’azione come mancava da un po’, in un incastro intelligente, empatico, a portata di sceneggiatura assurda e divertente, che ci lancia da un aereo o ci tiene aggrappati ad una roccia tra le aspre montagne del Kashmir. Con quella fine che non è mai fine, ancora una volta distante solo un infinito secondo. Pura missione impossibile, pura essenza cinematografica.

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