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Luci d’inverno | Il lungo silenzio di Dio, Ingmar Bergman e il suo film preferito

Ingrid Thulin, Max von Sydow e Stravinskiy. E quel legame con First Reformed di Paul Schrader…

Gunnar Björnstrand nel ruolo del pastore Tomas Ericsson

ROMA – «Il film quando non è documentario, è un sogno, è per questo che Andrej Tarkovskij è il più grande di tutti». Così parlò Ingmar Bergman, uno che negli anni non le ha certo mandate a dire nei confronti dei colleghi cineasti arrivando a definire Orson Welles «Una bufala», Jean-Luc Godard «Noia fottuta» e Michelangelo Antonioni come «Spirato, soffocato dal suo stesso tedio» da L’eclisse (di cui potete leggere qui) in poi. Non con Tarkovskij però che Bergman riteneva avesse portato nel cinema un nuovo linguaggio: «Che gli permette di affrontare la vita come appartenenza, la vita come sogno». Il sentimento era reciproco, al punto che, quando a Tarkovskij fu chiesto di compilare una lista dei suoi dieci film preferiti, inserì ben due gioielli di Bergman: uno era Il posto delle fragole, l’altro Luci d’inverno ed è proprio di quest’ultimo che parleremo.

«Penso di aver fatto un solo film che mi piace molto. Parlo di Luci d'inverno»
«Penso di aver fatto un solo film che mi piace molto. Parlo di Luci d’inverno»

In effetti sembrerebbe piacesse parecchio anche a Bergman che in un’intervista arrivò a definire Luci d’inverno come il film preferito di quelli da lui realizzati: «Penso di aver fatto un solo film che mi piace molto. Parlo di Luci d’inverno. Ogni secondo di questo film è esattamente come volevo che fosse» e questo nonostante – a detta di una larga fetta della critica internazionale – sia il film più lento dell’autore svedese, e non è che sia necessariamente un male del resto. Il motivo di un simile registro ritmico è da ricondursi, a detta dello stesso Bergman, alle difficoltà nel padroneggiare, scena per scena, le giuste emozioni. Non è infatti un’opera come le altre Luci d’inverno. Presentato in Svezia l’11 febbraio 1963, il film rappresenta la parte centrale della cosiddetta Trilogia religiosa/del Silenzio di Dio (Come in uno specchio, Luci d’inverno, Il silenzio).

«Alla fine di Luci d'inverno si vede un pastore che ha praticamente perso la fede, celebrare la messa nella sua chiesa completamente vuota»
«Alla fine di Luci d’inverno si vede un pastore che ha praticamente perso la fede, celebrare la messa»

Una trilogia tematica che, muovendosi nello stesso terreno narrativo de La fontana della vergine del 1957, eleva al massimo il senso di smarrimento nel mondo dinanzi a un Dio silenzioso, incapace di fornire all’uomo le risposte giuste a rendere salda (e solida) la sua Fede, o per dirla con le parole di Bergman: «Sono tre opere che trattano della Riduzione. Come in uno specchio è la conquista della certezza della Fede, Luci d’inverno vede il dubbio insinuarsi in quella stessa certezza, infine Il silenzio, con la dolorosa accettazione del Silenzio di Dio». Una spirale discendente che vede progressivamente abbandonare l’idea di Dio come amore che fornisce conforto in favore del Dio-ragno (Anansi) o Dio ingannatore che resta immobile dinanzi al grido di dolore urlato dall’uomo subito ovattato nel silenzio della Fede.

Luci d’inverno fu presentato in Svezia l’11 febbraio 1963

Non a caso, e la consapevolezza nichilista e annullante de Il silenzio è emblematica in tal senso (non conosce più rimedio), Luci d’inverno è l’ultima opera in cui Bergman riflette sull’esistenza di Dio e lo fa nel modo migliore per compattezza di narrazione e rigore di meditazione, proponendo lunghi primi piani di un’intensità ed essenzialità talmente rara da trasmettere vivida angoscia nello spettatore, senza però mai permettere all’agente scenico – il pastore Tomas Ericsson (uno stratosferico Gunnar Björnstrand) tormentato nello spirito oltre che nel corpo – di comunicarne realmente il sentimento a chi gli sta intorno. Questo fino al climax dove un ormai rassegnato Tomas dice messa nella consapevolezza della sua Fede traballante, in un gesto rituale di sola forma e nessuna convinzione amplificato dalla scelta registica di Bergman di spezzarne l’organicità attraverso il non-detto (ma lasciato intendere) del buio dei titoli di coda.

Gunnar Björnstrand è il pastore Tomas Ericsson

Un finale di grande impatto filmico ed emotivo, indubbiamente potente, che lasciò il segno nel cuore degli spettatori. Tra questi François Truffaut che vide nel climax di Luci d’inverno una sorta di metafora – per certi versi dolorosamente attuale nel mondo pandemico – dello stato di salute del cinema e della sala cinematografica: «Alla fine di Luci d’inverno si vede un pastore che ha praticamente perso la fede, celebrare la messa nella sua chiesa completamente vuota. Il film termina lì, con quel prete che malgrado tutto dice messa, e io interpreto quella scena in maniera diversa; mi dico: Bergman vuole dirci che gli spettatori di tutto il mondo stanno abbandonando il cinema, ma pensa che sia comunque necessario continuare a fare film, anche se si dubita e anche se non c’è nessuno in sala».

Ingrid Thulin è Märta Lundberg

Da quel momento in poi, dal climax de Luci d’inverno e dalla totalità filmica de Il silenzio – e Scene da un matrimonio ne è forse l’opera più caratteristica di questo evidente cambio di direzione – lo spirito critico di Bergman andrà a dirigersi verso l’amore e le conseguenze delle sue azioni nella vita dell’uomo. Un’opera preziosa quindi, che dell’opus bergmaniano è un evidente spartiacque artistico-tematico, dalla genesi decisamente curiosa. L’ispirazione per Luci d’inverno venne al regista di Uppsala da una conversazione che ebbe con un pastore che raccontò di aver offerto consigli spirituali a un pescatore che, poco dopo, si suicidò: un destino non dissimile da quello che Bergman disegnò al Karin Persson di Max von Sydow, ossessionato però dalla paura atomica e dall’ombra della Cina su tutto il mondo (oggi come ieri, incredibilmente).

Gunnar Björnstrand e Max von Sydow in una scena de Luci d'inverno
Gunnar Björnstrand e Max von Sydow

Per la realizzazione dello script – che Bergman ultimò l’11 agosto 1961 come riportato da Vilgot Sjöman nel documentario Ingmar Bergman Makes a Movie sulla lavorazione di Luci d’inverno – collaborò con il padre, il ministro della Chiesa di Svezia Erik Bergman, che si dice abbia letto per ben tre volte (di fila) lo script definitivo, rimanendone estasiato. Resta da chiarire se la dimensione caratteriale del Tomas Ericsson scenico – quello che lo scrittore Alberto Moravia enunciò come: «Il pastore Ericsson non cessa mai, in fondo, di credere: il dubbio che lo dilania riguarda sé stesso, non la religione» – sia direttamente ispirata al padre-e-pastore Erik, o allo stesso Bergman (Ingmar) e il suo essere un Ericsson/Erik-son-figlio di Erik. Quel che è certo è il peso specifico avuto nella storia del cinema da Luci d’inverno.

«Il pastore Ericsson non cessa mai, in fondo, di credere…»

Immaginato lo script come una musica da camera in tre atti ispirata, liberamente, all’opera religiosa Sinfonia di Salmi di Igor Stravinsky del 1930, tematicamente gemellare al capolavoro di Robert Bresson del 1951, Il diario di un curato di campagna, anch’esso sulla solitudine dolorosa e incompresa dell’uomo di Dio (ma dallo sviluppo decisamente differente), nonché diretto ispiratore dei contemporanei First Reformed  di Paul Schrader (qui per leggere dell’esordio di Tuta blu) e Corpus Christi di Jan Komasa, Luci d’inverno è grande, grandissimo cinema (non solo) bergmaniano, destinato a restare per sempre nelle memorie del tempo

  • OPINIONI | First Reformed, Paul Schrader e il silenzio di Dio
  • LONGFORM | Fanny e Alexander, l’ultimo atto di Bergman 

Qui sotto potete vedere il trailer del film: 

 

 

 

 

 

 

 

 

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